Per un’intera generazione che ha visto nella sensibilità politica e in quella particolare forma di “presa di parola” costituita dalle manifestazioni pubbliche, una delle modalità costitutive della propria esistenza sociale, la data del 12 dicembre 1969 segna innanzitutto un luogo della memoria. Un momento nel quale, per molti anni, si sarebbe commemorata quella che gli anarchici definivano una “strage di Stato”. Un’intera generazione è cresciuta all’ombra di quell’attentato, nutrita dalle paginate dell’Espresso e di Panorama che ci informavano sulle accuse a Pietro Valpreda, sulla morte di Giuseppe Pinelli, sull’assassinio del commissario Calabresi, sulle “piste nere”, sui “servizi segreti deviati”.

Da quella sera il rapporto fiduciario con le istituzioni inizierà sempre di più ad incrinarsi, proprio perché era il legame stesso con la verità ad essere compromesso. Inizierà proprio quella sera il nostro progressivo cammino verso l’universo delle verità eternamente occultate. Avendo creduto di vivere, fino a quel momento, in una democrazia compiuta, scoprimmo che in realtà, accanto al benessere ed all’industria dei consumi di massa, questa non ci restituiva più la verità. Una verità che – ed era questo il dubbio tremendo – forse non avremmo conosciuto mai.

Così, dal 12 dicembre in poi, la “cultura del sospetto” uscirà dai testi di filosofia per diventare linguaggio condiviso, paradigma indiscutibile. Dall’esperienza della strage di Piazza Fontana, e ancora di più dagli avvenimenti che vi faranno seguito, partirà un’epoca di dubbi e di incertezze. Ma anche un’epoca di accuse senza limiti, nella quale prenderà corpo un profondo discredito verso istituzioni sulle quali calava l’ombra delle connivenze più fosche. Riemergerà il fantasma di un’Italia incomprensibile ed inquietante, ma anche terribilmente violenta e senza attenuanti; un’Italia che si era manifestata sette anni prima con il sabotaggio dell’areo in cui viaggiava il presidente dell’Eni Enrico Mattei.

Sarebbe cominciata da allora la notte dalla quale non saremmo mai più usciti. L’Italia prenderà la forma del paese nel quale nulla realmente si risolve, nessun mistero si svela, ma tutto si rinvia, si diluisce nella memoria, scavalcato da nuove stragi, nuove urgenze, nuove crisi. Da lì in poi inizierà una strategia della tensione alla quale si sommerà il terrorismo degli anni di piombo. Con altre stragi, altri morti, ma anche con le esecuzioni, le condanne a morte da parte dei nuovi tribunali del popolo.

L’agonia della nostra generazione sarà infinita e ci si scioglierà nella confusione più profonda, ma anche nel relativismo più assoluto.

Non so quanto i giovani di oggi siano il risultato del nostro silenzio, per quanto ammantato da quel “profumo del ricordo che cambia in meglio” con il quale spesso lo circondiamo. Da quella sera abbiamo iniziato a perderci. Dietro le stragi si è disciolta un’epoca, ma anche un clima culturale, uno stile di vita. Poco importa che tutto sia rimasto uguale e ciascuno sia rimasto al proprio posto. In realtà, dove tutto sembrava restare uguale, nulla in realtà sarebbe rimasto come prima. Il disincanto diventerà il vero protagonista culturale per gli anni a venire. La passione per il Vero, risulterà, proprio a partire da quella sera, una speranza per pochi.