Non so voi, ma per quanto mi riguarda l’ipertrofia pacifista dell’ultimo fine settimana è stata davvero stucchevole. Come certe caramelle, buone a un primo assaggio. Ma poi talmente dolci da risultare quasi subito nauseanti. Il carico di ipocrisia di quelle piazze era enorme. Sia a Roma, dove metà dei partecipanti era dichiaratamente anti-Nato (la sinistra lo è, basti ricordare le parole di Palmiro Togliatti dedicate proprio a pace e pacifismo), se non addirittura filo-Putin. Sia quella di Milano, dove la difesa a oltranza della cosiddetta resistenza ucraina è stata declinata con toni e accenti decisamene fuori luogo. E, soprattutto, decontestualizzati. Ma esiste una differenza fra quelle piazze. Nemmeno troppo sottile. Perché per quanto chi ha sfilato nella Capitale abbia operato notevoli salti mortali per riuscire a tenere insieme ragionamenti, punti d vista e interpretazioni della realtà che nemmeno il Vinavil poteva sigillare, a Milano è andato in scena un vero e proprio processo di rimozione. Freudiano.
All’Arco della Pace, Carlo Calenda ha dato vita a una seduta di psicanalisi. Su se stesso. Un transfer collettivo. Perché il leader di Azione, si sa, ha fatto della questione ucraina un punto qualificante della sua scelta di campo. La sua condanna della Russia è senza appello. Così come la sua totale adesione al principio di autodifesa di Kiev, tanto da sostenere ogni possibile intervento in tal senso da parte dei Governi occidentali. Tradotto, Carlo Calenda manderebbe armi all’Ucraina in continuazione. E in automatico.
Posizione legittima. Persino certo oltranzismo atlantista appare legittimo. Peccato che poi la storia riporti a galla documenti come questi, ritrovati dall’analista del commercio di armi Giorgio Beretta per la stesura del suo libro Il Paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata.
E cosa ci dicono quelle carte? Semplicemente che nel 2015, l’Italia inviava 94 blindati Lince alla Russia. Regolarmente pagati all’azienda produttrice, la Iveco. Per capirci, questo: non esattamente una berlina di rappresentanza.
E chi erano, rispettivamente, presidente del Consiglio e titolare del Mise? Matteo Renzi e Carlo Calenda. I quali, sia ben chiaro, non hanno compiuto nulla di illecito. Anzi, hanno fatto il loro lavoro. Promuovendo un settore di particolare importanza ed eccellenza del made in Italy: le armi, appunto. Sapete benissimo che non sono un ipocrita, né tantomeno un pacifista: le armi esistono, i Governi le comprano, gli eserciti le usano. Pensare di metterle al bando equivale, a livello di realismo, al proposito di bloccare la pioggia per decreto ministeriale. Però, ci sono dei limiti. Soprattutto alla luce di questo, ovvero del fatto che lo stesso Carlo Calenda, in qualità di ministro dello Sviluppo economico, rilasciava interviste trionfanti rispetto al grado di penetrazione dell’industria italiana degli armamenti in Russia, nonostante le sanzioni internazionali già scattate per l’invasione della Crimea.
Insomma, l’uomo che oggi tuona contro Mosca e che taccia di collaborazionismo con il Demonio chiunque ponga anche un singolo interrogativo sulla bontà di un approccio acritico all’armamento continuo dell’Ucraina, quando aveva potere di decisione e di firma si faceva beffe dell’impronta imperialista della politica putiniana, spingendo anzi sull’export verso il Cremlino. Già sotto sanzioni.
Capite che trattandosi di un leader politico con aspirazioni a livello nazionale ben chiare e rivendicate, la questione non è relegabile all’archivio dell’ipocrisia e dell’incoerenza tipiche di questo Paese. Non stiamo parlando di uno dei partecipanti alla manifestazione di sabato, imbandierato pubblicamente in giallo-blu e poi magari impegnato privatamente e per lavoro in import-export con Mosca. Qui parliamo di un uomo che, alla luce del blitz Moratti, punta ancora a scompaginare il già fragile equilibrio bipolare del Paese. E a farlo disarticolando gli equilibri del centrosinistra nella regione più popolosa, ricca e innovatrice d’Italia: di fatto, un’Opa sul Pd a mezzo di candidatura a cui non si può dire di no.
Non a caso, Matteo Renzi sull’intera questione ucraina ha scelto un dignitoso ruolo di terza o quarta fila. Perché al netto del suo status di presidente del Consiglio durante gli anni delle esportazioni allegre verso il Cremlino, le sue frequentazioni saudite – legittimissime – mal si conciliano con certe uscite strappalacrime sulla tutela dei diritti umani e civili. Essendo molto furbo, l’ex Premier sposa il bassissimo profilo. Carlo Calenda, no. Anzi, si lancia addirittura in una sorta di karaoke resistenziale di fine manifestazione, cantando Bella ciao dal palco dell’Arco della Pace.
E se per i partecipanti italiani poco mi importa, poiché dovrebbero conoscere a fondo chi votano, prima di garantirgli il loro supporto, mi viene un principio di voltastomaco al pensiero di quelle donne ucraine strumentalizzate. Loro sì in buona fede e cariche di dolore. Perché madri, mogli, figlie e sorelle di chi sta morendo. E uccidendo. Di chi non ha più una casa o un lavoro. Di chi non ha più nulla. E scappa. Ecco, loro dubito che fossero a conoscenza della firma in calce a quei documenti di vendite. Perché quei mezzi Lince inviati in Russia, probabilmente sono stati utilizzati anche per la fase iniziale dell’operazione speciale in Ucraina. Ed è proprio sgradevole.
Errore di gioventù? Magari sì. Magari Carlo Calenda sta davvero vivendo mesi di tormento interiore e redenzione attraverso la catarsi totale, passando dal ruolo di commesso viaggiatore di Iveco, Finmeccanica e Leonardo (come tutti i titolari del Mise, sia chiaro) a sponsor degli invii a getto continuo di mezzi blindati e obici a Kiev. Tutto legittimo, siamo uomini. E quindi, fallaci. Ma occorrerebbe il coraggio di fare due cose.
Primo, ricordare pubblicamente quanto fatto, poiché assolutamente lecito e, anzi, in linea con la promozione degli interessi commerciali del Paese. Secondo, chiedere scusa, se si ritiene di doverlo fare e se alla base dell’attuale oltranzismo c’è davvero una presa di coscienza per gli errori compiuti. Perché è troppo facile cannoneggiare con la retorica tre quarti dell’arco parlamentare. Perché qui non si sta scherzando, qui si sta parlando di contesti che rasentano pericolosamente il rischio di escalation atomica. E lo sta facendo qualcuno che, in cuor suo, un domani vorrebbe tornarci al timone del Paese e delle sue politiche. Ma si sa, il contesto in cui si opera tende ad amplificare le dinamiche. E quando a livello globale si decide che il price cap sull’export di petrolio russo previsto in vigore dal 5 dicembre vedrà esentato il re-selling dei carichi delle navi cargo, tutto appare più chiaro. Il limite di prezzo, inteso come mezzo per colpire gli introiti di budget russo, varrà infatti solo per la prima vendita, quella da produttore ad acquirente su terra. Se quest’ultimo poi trasformerà quel greggio degli Urali in carburante e vorrà spedirlo in Usa o in Europa o in Giappone, sarà libero di farlo. Senza alcun tetto. Lo ha scritto il Wall Street Journal, quindi difficilmente si può parlare di disinformazione russa. Ma si sa, basta fare una bella manifestazione, sventolando bandiere ucraine o arcobaleno e passa la paura. Ma, certamente, così non si ottiene la mitologica pace.
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