La storia non è poi/ la devastante ruspa che si dice./ Lascia sottopassaggi, cripte, buche/e nascondigli. C’è chi sopravvive.”, scriveva Eugenio Montale.

E in questi giorni quelle parole suonano oltre il profetico per tutti gli amanti della musica d’autore, anzi per chi ama la musica e basta. C’è un’etichetta coraggiosa, si chiama Anni Luce, che realizza vinili con registrazioni perse o inedite della canzone italiana; c’è una giornalista ostinata, Lucilla Chiodi, che è alla ricerca di un introvabile brano inedito, entrato nella mitologia per mitomani, di Piero Ciampi in duetto con Lucia Rango; c’è uno scantinato da cui quel nastro viene recuperato, lasciato tra le chincaglie che la vita accatasta per dimenticare, dagherrotipi di possibilità inespresse.



E così si arriva alla ristampa, ampliata e rimasterizzata, di un vinile ormai scomparso, Lucia Rango Show, con il titolo Lucia Rango canta Piero Ciampi, dove è contenuta – appunto – “Non chiedermi più”, l’inedito duetto del 1967 (l’unico, fin qui conosciuto, per il livornese) da oggi restituito all’ascolto, mandando in gongolo e solluchero lo zoccolo duro dei fan, più numerosi di quanto non si sarebbe disposti a credere.



Arriva una strana vertigine a riascoltare quella voce malinconica, da poète maudit, disperata e sardonica in un brano pienamente riflettente il livello “alto” della produzione di Ciampi. Il ritmo ternario, un po’ da organetto di Barberia, occhieggiante alla Parigi di Brassens, il classico innalzamento di un tono nella ripresa delle strofe, gli arrangiamenti di Elvio Monti (tra le eminenze grigie del cantautorato nazionale, Squallor compresi), il confronto sull’amore consumato dall’incomunicabilità, sul distacco come modalità inevitabile del presente.

Con la potente luminescenza di una supernova, Lucia Rango registrò, al tempo, un album di grandissima intensità interpretativa; una voce brillante, precisa, ricca di dinamiche, tanto che fu scelta proprio da Ciampi per tentare una qualche stabilità sul suo nome come autore. Decise, tuttavia, di ritirarsi subito dalle scene (conservando, per fortuna, i nastri e gli outtakes registrati, nel baule dei ricordi).



Questo album atteso è, peraltro, l’occasione per tornare a scoprire Piero Ciampi, che ce l’ha messa tutta in vita per costruire la propria damnatio memoriae: eretico, insofferente alle regole discografiche, timido, scontroso, brusco, triste, ma dannatamente ispirato. Nella sua troppo breve parabola ha sfornato tra le canzoni più belle del repertorio italiano dei ’60 e dei ’70, restato a beneficio di uno zoccolo duro di estimatori, nonostante una qualche forma di ostinata auto distruzione, che lo lasciò, ingiustamente, ai bordi del successo maggiore, proprio negli anni dell’esplosione dell’industria discografica, pingue e incline alle novità.

A lui si deve, ad esempio, un brano magnifico (scritto per Carmen Villani, ma poi interpretato personalmente) come “Bambino mio”, dove viene descritto per la prima (unica?) volta lo strazio del genitore separato della domenica, sempre pronto a dover salutare sulla soglia la propria vita che non gli potrà appartenere. La liberatoria “Adius” con quella raffica di vaffanculo surreali, per fortuna recuperati da Capossela in una bella cover per un album commemorativo del 2009 (E continuo a cantare, EMI) o la spiazzante “Ma che buffa che sei” dove, con una libertà espressiva che oggi sarebbe con ogni probabilità preclusa, si azzarda a cantare: “quel pugno che ti detti è un gesto che non mi perdono, ma il naso ora è diverso: l’ho fatto io e non Dio” (per la serie, nemesi di ogni femminismo a venire ovvero dell’auto boicottaggio postumo). Non gli bastarono l’ammirazione incondizionata di tanti amici più nei ranghi, da Paolo Conte a Gino Paoli, che gli procacciò un contratto con la RCA e un generoso acconto, che pensò di dilapidare in un soffio. Piero Ciampi resta una monade, impossibile da incasellare in ogni corrente, hapax della storia musicale, tuttavia seminale oltre le probabili intenzioni.

Anche per questo, il lavoro prezioso di tre anni, portato avanti da Lucilla Chiodi e Lucia Rango (nelle trecento copie a tiratura limitata e numerate a mano è contenuta anche una lunga, interessante intervista-conversazione tra le due) è meritorio di una piccola celebrazione, perché ha il coraggio di tornare a far luce sul caso controverso di un artista prezioso.