“Ecco il miracolo di questa contadina adolescente altera come la figlia di un re. Il silenzio della campagna intorno a lei è così compiuto. Finora probabilmente si è divertita a confidarsi con le sue bestie; le chiama per nome e… ride! Poi, d’un tratto, è tutto finito perché, attraverso i secoli, il Destino ha scelto proprio la sua purezza. Lei ne sembra compresa, ma non felice perché già oscuramente avverte come la vita misteriosa che giorno per giorno cresce nel suo grembo, finirà su una croce romana simile a quella di un malfattore”.
A far parlare così Alain Delon, protagonista del film La prima notte di quiete, è lo sceneggiatore della pellicola realizzata da Zurlini nel 1972.
Autore dell’affresco a tutti noto come La Madonna del Parto è Piero della Francesca, che pare abbia scelto di onorare così la memoria di sua madre, Monna Romana di Perino, nativa del piccolo borgo di Monterchi, in alta val Tiberina. Dopo quasi sei secoli di storia (la datazione dell’opera oscilla tra il 1450 e il 1455) è ancora questo il Comune che lo custodisce: ospitato per anni nella cappella del cimitero, si trova attualmente presso i Musei Civici Madonna del Parto, spazio museale appositamente predisposto.
La storia del capolavoro di Piero è, ad ogni buon conto, costellata di traversie; può considerarsi dunque un miracolo il fatto che, dalla metà del Quattrocento ad oggi, esso non sia stato mai né trafugato né distrutto. A minarne l’integrità due rovinosi terremoti: l’uno nel 1789, l’altro – ancor più violento – nel 1917. Fu poi la rapace avidità dei tedeschi, nella primavera del ’44, a rappresentare il pericolo più incombente e, non solo per La Madonna del Parto, ma per l’intero patrimonio artistico del nostro Paese. Allo scopo di sottrarle a bombardamenti e saccheggi, il governo dispose di concentrare in ricoveri sicuri buona parte delle opere più preziose. Fu così che anche il podestà di Monterchi, per preservare l’affresco di Piero da possibili danni bellici, fece chiudere con una parete di mattoni la nicchia che lo conservava. Nel quinto centenario della morte dell’artista si rese comunque necessario un intervento di restauro conservativo sotto la direzione della Soprintendenza di Arezzo. Oggi la Vergine, collocata già da Piero al centro di una preziosa tenda foderata in pelli di vaio, si offre al visitatore come un’apparizione che mantiene vivo il misterioso legame tra la realtà carnale di Maria e quella divina del Salvatore.
Nella tradizione iconografica rappresentare la Madonna gravida aveva, da sempre, costituito un problema: occorreva infatti salvaguardare innanzitutto la modestia di Maria senza, d’altra parte, escludere i fedeli dal rapporto con la donna prescelta a diventare la Madre del Creatore; un’altra difficoltà dipendeva dal fatto che la sua immagine risultava difficilmente isolabile dalla narrazione evangelica che aveva il compito di contestualizzarne proprio la maternità.
Come dunque mostrare Maria mentre custodisce Gesù nel suo grembo carnale? Come documentare, nell’arte, il noto e commovente “Non horruisti Virginis uterum”? (cfr. Te Deum).
Al ventre rigonfio della Madonna, molti pittori, specie dell’area nordica, facevano corrispondere il monogramma di Cristo o riferimenti simbolici al divino: raggi luminosi e stelle, eccetera. Grazie poi all’influsso del naturalismo toscano (1200-1300), gli artisti italiani scelsero di indicare la gravidanza tramite una cinta alta e arcuata sopra il ventre sporgente di Maria: curiosa, in questo senso, l’etimologia latina del termine “incinta” che sta per “non cinta”, “senza cintura”. Nelle prime Madonne del Trecento toscano, anche la Bibbia – il libro per antonomasia – divenne, oltre che simbolo di preghiera e di familiarità con la Scrittura, segno pregnante del Verbo che si fa carne con esplicito riferimento al prologo del vangelo di Giovanni.
Per nulla trascurabili due atteggiamenti con cui la Vergine viene solitamente rappresentata: quello di Lei protesa in avanti con lo sguardo diretto verso il basso, la cui attenzione però non è innanzitutto rivolta al libro o al grembo, ma piuttosto ai devoti inginocchiati ai suoi piedi, e quello silenzioso e contemplativo, che pone in evidenza il tempo dell’attesa e dell’ascolto.
Anche le mani della Madonna assumono differenti collocazioni nell’iconografia a lei dedicata. Piero, ad esempio, nell’affresco di Monterchi pone a diretto contatto la destra della Vergine con il suo ventre, come ad indicarne il progressivo ingrossarsi tanto che neppure l’abito più si abbottona.
Impossibile, da ultimo, non soffermarsi sulla soluzione escogitata dall’artista per mantenere vivo il dialogo tra la Vergine e la folta schiera dei suoi figli: due angeli, speculari l’uno all’altro anche nella selezione cromatica, tengono aperte le quinte di questo palcoscenico della storia e, puntando lo sguardo sui fedeli, consentono al dialogo di proseguire in un silenzio denso e profondo. L’azzurro polveroso e ceruleo dell’abito avvolge l’imponente figura di Maria esaltandone femminilità ed eleganza. Che solido equilibrio e che pacificante compostezza! Imprescindibile, forse, il riferimento alla preghiera del Rosario: proprio in ottobre la tradizione della Chiesa ce ne suggerisce la recita quotidiana rendendoci così più consapevoli di quanto la Madonna sia, più che mai oggi, “la sicurezza della nostra speranza”.
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