A quarant’anni dalla prima pubblicazione di Indagini su Piero, Adelphi presenta una nuova edizione del testo di Carlo Ginzburg, in una veste editoriale molto elegante, con l’aggiunta di una postfazione e di uno straordinario apparato iconografico per supportare la comprensione di un testo di per sé tutt’altro che agevole.



Ginzburg, com’è noto, è uno storico conosciuto molto oltre i confini nazionali e potremmo considerarlo, forse con un linguaggio più consono al “made in Italy”, un talento italiano nel mondo, un autore di microstorie: ricerche analitiche sia su temi apparentemente marginali o personaggi ignoti, sia su un pittore celeberrimo come Piero della Francesca (Indagini su Piero inaugurò, nel 1981, la collana einaudiana “microstorie”).



In altri termini, Ginzburg pare avere declinato, con il suo metodo, quel paradigma neoplatonico che si evolverà successivamente a Piero della Francesca, ma la cui aria quest’ultimo già avverte, e che correla indissolubilmente il microcosmo a quello macro. Egli ci spiega, infatti, che la poetica del grande pittore, fondatore della prospettiva e ispirato da una sorta di “mistica della misura” (Clark), si inquadra nella trama culturale e politica che un “clan di umanisti aretini” (tra i quali Leonardo Bruni, Giovanni Tortelli e Giovanni Bacci, che è stato il committente del Ciclo di Arezzo) aveva intessuto con altri umanisti del mondo fiorentino (Leon Battista Alberti, Poggio Bracciolini, ecc.). Talché, uno dei temi su cui lo storico incentra il suo discorso è quello del metodo di ricerca, focalizzando il ruolo della committenza delle opere.



Nell’edizione di Indagini su Piero recentemente pubblicata da Adelphi lei ha scritto una postfazione. Quali sono le principali novità?

Nella postfazione non sono partito dalle risposte che avevo dato nelle precedenti edizioni. Sono mosso dalle domande che avevo posto nell’edizione originaria, la quale, secondo Angelini, è stata una vera “frustata” per tutti gli studiosi. Non certamente una “frustata” legata alle risposte, ma alle domande, le quali, più di quarant’anni fa, erano in qualche modo inattese. In altri termini, l’idea dell’esperimento che si concentra sull’iconografia e sui committenti e che non poteva non essere tenuta in conto anche da quegli storici dell’arte che lavorano soprattutto sui dati stilistici, quell’idea mette in discussione la cronologia, cioè apre una zona di frizione. Fino a che punto i dati stilistici possono consentire uno sviluppo cronologico e suggerire una datazione cronologica? In quel testo, scrivevo che solo degli elementi esterni possono suggerire una datazione calendariale e questo, secondo me, è un punto che resta fermo. Però l’idea che lo stile abbia un’evoluzione, quindi sia possibile stabilire uno sviluppo, ragionando su di esso, questo è un tema che è stato affrontato da Morelli, Berenson, Longhi e poi nel dialogo di Longhi con Clark. Su di esso mi ero soffermato anche io, ma senza approfondire. Adesso ho cercato di farlo nella postfazione. Alla fine affronto un caso macroscopico, quello del rapporto tra Andrea del Castagno e Piero della Francesca, esemplificato dal rapporto della Resurrezione di quest’ultimo, a Sansepolcro, con l’affresco di Andrea del Castagno. Su questa relazione Longhi, senza affrontare specificamente il tema, ha sostenuto una tesi che fa a pugni con la cronologia, che cioè Andrea del Castagno abbia reagito a Piero e non l’inverso. Chiudo la postfazione su questo, perché credo che sia un tema importante, quello cioè del modo in cui è stato affrontato il problema della formazione di Piero della Francesca, nel senso che, se da un lato c’è la lezione che Piero ha appreso come aiuto di Domenico Veneziano, se dall’altro c’è la presenza di Masaccio, pensiamo alla Crocifissione nella pala di Sansepolcro, però c’è anche, secondo me, il modo in cui Piero ha completamente rielaborato Andrea del Castagno. Questo è un tema che gli storici dell’arte dovrebbero affrontare.

Nelle opere di Piero si registrano alcuni leitmotiv, che sono la riconciliazione tra la Chiesa romana e quella bizantina, con il superamento del grande scisma e l’idea che fosse possibile organizzare una crociata per riconquistare Costantinopoli, caduta in mano ai Turchi nel 1453. Il ruolo di Bessarione, quello di Federico di Montefeltro e dell’aretino Giovanni Bacci dovrebbero essere ripensati? In altri termini, il quadro d’insieme, definito da quei temi, rimane inalterato oppure deve essere rivisto?

Penso che quel quadro sia assolutamente valido. Giustamente lei ha fatto riferimento a Giovanni Bacci, perché è in qualche modo il filo conduttore che lega queste tre opere dal punto di vista della committenza e anche dal punto di vista dell’iconografia: la reliquia della croce di Bessarione, la cui presenza mi pare innegabile, in controluce, nel Ciclo di San Francesco ad Arezzo, si spiega grazie ai legami di Giovanni Bacci con l’ambiente umanistico fiorentino, grazie al fatto che sia stato podestà a Gubbio e ai legami con Federico di Montefeltro, a Urbino. E questo è un caso che dimostra le potenzialità dell’indagine sulla committenza, in quanto un personaggio come il Bacci, trascurato in rapporto a Piero, può fornire invece una prospettiva inedita per quanto riguarda il contesto in cui certi temi sono emersi e quindi l’importanza dello studio della committenza in rapporto all’iconografia e alla cronologia. A questo punto viene la domanda “E lo stile?”. Questa è la domanda che io giro agli storici dell’arte.

Per quando riguarda la Flagellazione lei conferma l’identità dei personaggi visibili nel proscenio e cioè che si tratti di Bessarione, il metropolita di Nicea, fautore della riunificazione delle chiese nel congresso di Ferrara-Firenze del 1438-39, di Buonconte, figlio naturale di Federico di Montefeltro, morto di peste nel 1458, appena diciassettenne, e dello stesso Federico? Su quei tre personaggi vertono, infatti, alcuni forti dissensi.

A me pare che quello sia un ritratto idealizzato di Bessarione, senz’altro più giovane per un motivo che ho cercato di argomentare, riferendomi cioè alla notizia che ho rintracciato nell’unica biografia di Giovanni Bacci, la quale riferisce del ruolo di quest’ultimo come “nuntio a Cesare”. Ho l’impressione che tutti quelli che hanno discusso e rifiutato la mia interpretazione iconografica non abbiano preso in considerazione questo dato. Ma esso esiste. “Nuntio” in che senso? Io avanzo quest’ipotesi, pur non avendo i documenti (la scena rappresenterebbe il momento in cui Giovanni Bacci comunica a Bessarione il conferimento della porpora cardinalizia, cioè circa venti anni prima che Piero dipingesse, probabilmente tra il 1458-59, la stessa tavola, ndr). Ovviamente, se vogliamo accettare che quello sia Bessarione, allora si pone il problema di come sia possibile spiegare il legame tra quest’ultimo e Federico di Montefeltro. Per questo emerge la figura di Buonconte (quest’ultimo era un giovane particolarmente versato negli studi classici e per questo molto amato da Bessarione. Piero, quindi, avrebbe commemorato la morte del giovane, su istanza di Bessarione stesso e secondo le indicazioni di Giovanni Bacci, per comunicare a Federico un messaggio di partecipazione al suo dolore e contestualmente anche un invito a organizzare una futura crociata per la riconquista di Costantinopoli, ndr). A più riprese ho riletto il mio libro e metto in guardia, anzitutto me stesso, dal circolo vizioso (che si presenta quando le congetture sono proposte per confermare altre congetture, ndr). Non voglio qui entrare in un circolo vizioso e però io credo di avere costruito un’interpretazione che ha degli elementi documentali e degli elementi congetturali. Penso, inoltre, che senza congetture non sia possibile trovare alcunché. Io ripeto sempre una bellissima battuta del mio amico Francesco Orlando, il grande studioso allievo di Tommasi di Lampedusa, l’“amanuense del Gattopardo”, come lo chiamò Gianfranco Contini, che ha scritto un bellissimo ricordo di Lampedusa stesso. Ebbene Orlando, anche lui studioso di prim’ordine – penso a un suo bellissimo libro sull’interpretazione freudiana della “Phèdre” –, disse che all’entrata di tutte le università italiane dovremmo porre una lastra di marmo nero con su scritto in lettere d’oro: “chi non rrisica non rrosica”. Pronunciò questa frase con l’accento palermitano, che sottolineava le “erre”. E aveva perfettamente ragione: bisogna insegnare agli studenti l’audacia delle congetture, la capacità di osare e, al tempo stesso, l’esigenza della prova. Le due cose devono andare insieme.

In merito all’ipotesi di Federico Zeri, che cioè la Flagellazione non sia quella di Cristo, ma quella che San Girolamo subisce in sogno, punito per le eccessive letture di scrittori pagani, in analogia con l’omonimo dipinto di Matteo di Giovanni esposto presso l’Art Institute di Chicago, cosa pensa?

Io penso che sia un’ipotesi inaccettabile. Opporrei a Zeri, e credo di avere avuto occasione di discuterne con lui, la “mensura Christi”, che non può essere la “mensura” di San Girolamo (Ginzburg si riferisce al fatto che nel chiostro di San Giovanni in Laterano vi sono quattro colonne la cui altezza si ritiene equivalente a quella di Cristo e che esse misurano esattamente dieci volte l’altezza del Cristo dipinto da Piero, ndr). Il rapporto di uno a dieci, fino al millimetro: “colonne divinamente misurate”, così diceva il Vasari, riferendosi alle colonne che campeggiano nell’incontro della regina di Saba con Salomone del Ciclo di Arezzo. Questo elemento della colonna, indipendentemente dalla ricerca che ho fatto io stesso sulla “mensura Christi”, è senz’altro centrale e ritorna nella commisurazione della Flagellazione. Ecco, opporrei questo argomento a Zeri.

Silvia Ronchey ritiene che il personaggio scalzo non sia il figlio di Federico, Buonconte, ma il porfirogenito, cioè colui che si accinge a occupare il trono di Costantinopoli, vestito di porpora, ma scalzo perché in attesa di indossare le babbucce caratteristiche del potere bizantino.

Io non sono convinto di questa argomentazione. Siamo in presenza di una serie di ambiguità. Mi pare più probabile che sia scalzo perché è morto (questo confermerebbe l’ipotesi dell’identità di Buonconte, ndr); poi ci sarebbe una tunica angelica che non corrisponde ai vestiti datati e localizzati geograficamente di chi gli sta intorno; e infine, che rapporto ci sarebbe con Federico di Montefeltro? Il contesto che emerge non è congruo e questi elementi non mi convincono.

Quali sono i principali progressi della storia sociale dell’arte, che è una disciplina cui lei ha dato un’importante contributo?

In altre occasioni ho segnalato, come esempio dell’evoluzione di questa disciplina, il libro di Michael Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento. Ho avuto la fortuna di stringere amicizia con l’autore, che era uno studioso straordinario. Il suo è un libro affascinante, fra l’altro quello che lui dice sull’annunciazione qui a San Francesco è bellissimo. Qui, davanti alla basilica del Ciclo, siamo proprio sul “luogo del delitto”. Ebbene, constatiamo, come si è visto, una mistica della misura; poi abbiamo – così direbbe lo spettatore del tempo che osservasse gli affreschi – un baldacchino sopra la testa di Cosroe che viene decapitato; vediamo anche un libro di abaco e ci sono dei mercanti che imparano a misurare le botti, ecc. In sostanza si ha una pagina sopra un contesto inatteso, su come si misura una botte… Ma chi è l’autore del libro d’arte? Piero della Francesca. E allora, con una sorta di colpo di scena, dicevo ai miei studenti: “Potrebbe anche non essere Piero”. Questa coincidenza fa molta impressione, però Baxandall sta parlando di un contesto per cui l’autore del libro di abaco potrebbe essere un altro, seppur legato a quel contesto lì. Ricostruire il contesto sociale a partire dalle caratteristiche formali dell’opera: una lezione straordinaria.

Dunque questi studi sono estremamente promettenti e lei il suo contributo rilevante lo ha certamente dato.

Importante è legare questo approccio ad una lettura dell’opera. Anche nel libro ho espresso un rifiuto della metafora struttura/sovrastruttura. Però su questo terreno c’è moltissimo da fare. L’idea che i committenti, legati effettivamente all’opera, possano costituire un elemento di analisi specifica, mi pare importante.

(Alessandro Artini)

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