«In questi due ultimi anni nei quali la mia vita è stata legata a quella di Costanza ancor più di quanto non fosse stata nei precedenti, per tutte le svariate necessità dell’assistenza diurna e soprattutto notturna, in molti mi hanno chiesto come facessi a sopportare questo grande sacrificio. All’inizio confesso che anch’io ne fui spaventato»: inizia così l’ultima lettera scritta da Pietro Ichino sul suo blog per salutare l’amata moglie Costanza Rossi, morta nella notte tra il 9 e il 10 maggio dopo 8 durissimi anni di lotta contro la PSP-Paralisi Sopranucleare Progressiva, una sindrome molto simile alla Sla nota anche con il nome di Sindrome di Richardson.

Per il giuslavorista già senatore del Pd – finito sotto scorta per le minacce subite dalle Brigate Rosse – la storia di amore con Costanza è durata fino agli ultimi istanti, all’ultimo saluto sul letto di morte poche ore fa: una sofferenza continua ma anche la commozione, racconta lo stesso Ichino, di poter riscoprire «quel tesoro nascosto dove mai lo immagineremmo». La malattia l’ha progressivamente paralizzata annullando in queste ultime settimane praticamente tutte le attività vitali e cerebrali: «Mi ero impegnato a essere per Costanza le gambe che aveva perduto, gli occhi al posto dei suoi che non funzionavano più, e nell’ultimo periodo anche le braccia e le mani per lavarsi, pettinarsi, vestirsi, portare il cibo alla bocca; questo ben presto ha creato tra me e lei, dopo 45 anni di matrimonio, un’intimità che non avevamo mai vissuto».

PIETRO ICHINO, L’ULTIMO ADDIO ALL’AMATA MOGLIE

Sono toccanti e per nulla “banali” le parole con cui Pietro Ichino racconta con umiltà dovizia di particolari questi ultimi istanti passati con la moglie Costanza riscoperti pieni di commozione e, paradossalmente, non di rimpianti: «gli ultimi 2 anni il periodo più sofferto, ma forse sono stati il periodo più ricco e intenso». Il racconto di come passavano le serate e la dolcezza di un gesto considerato quasi “banale” come spostarsi dal letto alla carrozzina: Ichino la ricorda così con tenerezza quella donna straordinaria che ha passato la vita affianco a lui, nel tormento delle battaglie politiche e giuslavoriste.

«Ogni volta – e potevano essere decine in una giornata – che lei mi chiedeva di spostarsi dal letto o dalla poltrona alla carrozzella e viceversa era un abbraccio stretto, e qualche volta ci fermavamo a metà strada abbracciati così, indugiando a dondolarci come in un ballo cheek to cheek. Abbiamo scoperto la delizia nuova, mai sperimentata prima, del leggere insieme ad alta voce per lunghe ore serali libri stupendi, che letti insieme diventano ancora più belli», scrive ancora l’ex senatore che prova a descrivere quanto provato in quegli ultimi attimi commossi, «quella regola del cercare il bene nascosto in tutte le pieghe della vita, che in questo nostro ultimo caso pareva subire una evidente eccezione, o pareva addirittura non poter essere menzionata senza assumere il significato di un’irrisione alla sofferenza, si è invece rivelata ancora una volta tangibilmente vera». In conclusione, scrive ancora Ichino, «Se mi è consentito utilizzare una parola grossa, la “fede” in quel bene nascosto si è rivelata non solo frutto di speranza, non solo immaginazione di una consolazione promessa altrove, ma conoscenza – nel senso più profondo del termine – di qualche cosa di molto concretamente tangibile».