Pietro Sermonti, diventato celebre prima come il premuroso dottor Zanin in Un medico in famiglia e, poi, come Stanis della serie Boris, si è raccontato sulle pagine di Specchio, ripercorrendo quello che per lui significa essere un attore, e parlando della sua complicata infanzia. “La maggior parte degli attori brillanti”, sottolinea subito in apertura, “lotta contro una malinconia bestiale e collosa”, confessando che “io non faccio eccezione”.
“Mi interessa portare sullo schermo le sfumature di dolore”, racconta ancora Pietro Sermonti, parlando di cosa significa per lui fare l’attore, “il rimosso, la vita ingolfata che risuona poi inevitabilmente in chi guarda”. Esperienza che, fortunatamente, gli è stata offerta dal registra Marco Bocci per il film La Caccia, in cui interpretava un pittore tormentato e che ricorda come “un film selvaggio fino in fondo, su quattro fratelli che lottano per sopravvivere a un trauma d’infanzia, in cui non c’è nulla di accomodante”. Esperienza che, peraltro, ha permesso a Pietro Sermonti di “vivere la vertigine dell’insicurezza più totale”, almeno dal punto di vista attoriale.
Pietro Sermonti: “Persi mia sorella a 4 anni, mi sentii in colpa”
Continuando nell’intervista, Pietro Sermonti racconta di essersi un po’ rivisto nel pittore tormentato del film La Caccia, perché entrambi si sono trovati ad affrontare il pesante peso di un trauma infantile. “Ho perso mia sorella“, confessa, “molto malata e di un anno più grande di me, quando avevo quattro anni”, portandosi con sé tutta una serie di rimorsi con i quali ha faticato a scendere a patti nel corso degli anni.
Pietro Sermonti racconta di non avere grandi ricordi in merito alla perdita della sorella, “percezioni vaghe, memorie annebbiate” e poco più, ma confessa che sono state tutte cose che ci ha messo “trent’anni a elaborare“. E così, con “un processo lungo e non semplice”, è arrivato a compredere che “in generale quando si toglie attenzione ad un bambino – per quanto, come nel mio caso, per la malattia di un’altra figlia – quest’ultimo in fondo desidera che la situazione cessi prima possibile”. Il problema, però, racconta ancora Pietro Sermonti, è che “quando poi cessa veramente, il bambino pensa di esser stato lui, in qualche modo. E si sente in colpa“.