Il Pil del secondo trimestre 2023 in calo dello 0,4%. Un decimale in più, in negativo, rispetto alla stima diffusa a fine luglio. E anche se sull’anno il prodotto interno lordo italiano dovrebbe attestarsi sullo 0,7% in più, il dato desta qualche preoccupazione. A determinare questa flessione, spiega Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di economia industriale all’Università Cattolica di Milano, non sono stati i consumi delle famiglie, ma la fine del superbonus e, soprattutto, la mancata attuazione del Pnrr da parte delle pubbliche amministrazioni. Ci ha frenato la mancanza di investimenti in particolare nell’edilizia non residenziale. La Spagna, che ha fondi europei come i nostri, ha fatto molto di più.
Quali sono le ragioni di questo calo del Pil?
La valutazione del dato è un po’ mista. C’è un peggioramento di un decimale rispetto alla stima preliminare che l’Istat aveva diffuso. Questo non ci deve far dimenticare che fra i cinque maggiori Paesi europei l’Italia è pur sempre quello che, rispetto al quarto trimestre 2019, è cresciuto di più: 2,1%. La Francia è all’1,7%, la Spagna allo 0,4% e anche la Germania è sotto di noi, mentre in Gran Bretagna stanno cambiando per l’ennesima volta i dati del Pil, anche se dovrebbe attestarsi sui livelli della Francia. Questo non cambia la preoccupazione per la frenata. Perché la frenata c’è stata.
Che cosa ha determinato allora la diminuzione dei valori?
Si è parlato di inflazione, di fine di un periodo aureo, si è molto insistito per tutta l’estate sul tormentone del caro prezzi. Se guardiamo i dati, però, i consumi delle famiglie non hanno contribuito al calo del Pil, sono rimasti invariati. Non ci ha frenato neanche l’aumento dei tassi di interesse: gli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto delle imprese sono leggermente diminuiti, ma quasi impercettibilmente. La frenata è da attribuirsi alla fine dei superbonus edilizi, una decisione scontata visto come hanno gonfiato artificialmente la dinamica dell’edilizia. Ma la vera causa va ricercata negli investimenti dell’edilizia non residenziale e in un contributo negativo dello 0,3% della spesa delle pubbliche amministrazioni.
Quindi cosa bisogna fare?
Bisogna cominciare a materializzare gli effetti del Pnrr. Ci troviamo in presenza di variabili su cui dovrebbero scaricarsi gli interventi del settore pubblico, che non mostrano, tuttavia, il minimo segnale di sviluppo. In Spagna, Paese che ha ricevuto insieme a noi più risorse dall’Europa, la spesa della pubblica amministrazione è aumentata dell’1,5% e di oltre il 12% gli investimenti nell’edilizia non residenziale. Si sono dati una bella mossa.
Vuol dire che paghiamo ancora le carenze della pubblica amministrazione?
Sarebbe interessante sentire in che modo l’Istat contabilizza gli investimenti del Pnrr: se investono le Ferrovie dello stato questi soldi finiscono in macchinari e mezzi di trasporto o in altre tecnologie? Resta il dato di fatto che sull’edilizia residenziale non abbiamo riscontri dell’impatto del Pnrr. Il monito di Gentiloni per non sprecare l’occasione è un monito su cui riflettere. È il caso di valutare se non si possa recuperare il tempo perduto e rilanciare il Pnrr.
Un’attivazione più decisa del Pnrr ci permetterebbe di recuperare nell’ultima parte dell’anno?
Dipende anche da come sono stati programmati gli investimenti, ma è urgente cominciare a trasformare in Pil il Pnrr. I consumi delle famiglie, come aveva fatto anche Draghi, sono stati ben sostenuti dall’attuale Governo: rispetto a un anno fa siamo sopra dell’1,3%. La Spagna è sopra dello 0,5%, Germania e Francia sono sotto. I tedeschi appena hanno visto l’inflazione salire hanno frenato su tutto. Noi invece abbiamo avuto un incremento di beni durevoli e un fortissimo aumento dei consumi di servizi, gli unici consumi un po’ indietro sono quelli dei generi alimentari, di beni non durevoli. Quindi il punto dolente è l’applicazione del Pnrr.
Ci sono altri elementi che potrebbero farci vedere sotto una luce diversa il dato del Pil?
Mancano ancora i dati del turismo, sono fermi a maggio: riuscire ad accelerare la raccolta dei dati sul turismo sarebbe un fatto importante in termini di monitoraggio dell’economia. Istituzioni solitamente severe con noi come il Fmi avevano previsto qualche mese fa che l’Italia potesse realizzare un +1,2% sul Pil, ora è chiaro che con una crescita acquisita allo 0,7% è già tanto se a fine anno arriveremo all’1%.
Il calo del Pil avrà dei riflessi sul debito pubblico?
Se chiudiamo all’1% i dati del Def sono confermati. Non vedo impatti rilevanti sul debito pubblico. Noi italiani non sappiamo fare le public relations sui nostri dati. I francesi sono capacissimi: nessuno ha segnalato che il debito pubblico francese ha superato i 3mila miliardi, 100 miliardi di differenza con il nostro, più alto di quello del Governo Berlusconi quando Sarkozy rideva alle nostre spalle. In Italia appena rallenta il Pil sembra che il debito pubblico diventi ingestibile. Quello che mi preoccupa maggiormente è l’incapacità nostra di capire i dati. Non so dove vadano a finire gli investimenti del Pnrr, non riesco a capirlo. Io non mi preoccupo di cunei fiscali, di salari minimi: il tema è la messa a terra del Pnrr. È vero che l’occupazione ha rallentato, ma finora è andata benissimo e ha contribuito a far crescere i consumi. Ogni occupato in più è uno stipendio in più.
Insomma, il punto resta il Pnrr?
Stiano stati capaci di crescere. Oggi siamo la manifattura più competitiva, più diversificata nei prodotti esportati: in questo siamo primi al mondo, abbiamo un surplus con i Paesi extraUe, esclusa l’energia, da 60 miliardi, arriveremo a 100. Dati che pochi altri Paesi possono vantare. Il vero punto è accelerare sul Pnrr.
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