Ieri l’Istat ha rivisto al ribasso le stime sul Pil del secondo trimestre dell’anno. A livello congiunturale il calo è stato del 12,8%, contro il 12,4% stimato il 31 luglio, mentre a livello tendenziale la diminuzione è passata da -17,3% a -17,7%. La variazione acquisita per il 2020 risulta quindi pari a -14,7%. Il Governo intanto sta lavorando al Recovery plan con l’obiettivo di anticiparne una parte insieme alla Legge di bilancio, di modo da far partire investimenti per 20 miliardi di euro già da gennaio 2021. Per Marco Fortis, Direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, il Recovery fund rischia però di non bastare per una vera ripartenza dell’economia europea.
Professore, cosa pensa dei dati diffusi ieri dall’Istat?
C’è stato un leggero peggioramento rispetto alla prima stima sul calo del Pil del secondo trimestre. Non si tratta di una variazione sconvolgente. Semmai a colpire è l’entità del calo, anche se la sua dimensione era già chiara un mese fa.
Da cosa è stata determinata questa caduta del Pil?
Il calo congiunturale del 12,8% del Pil è stato per poco più della metà (-6,7%) determinato da un crollo dei consumi delle famiglie. L’altra metà è ripartita grosso modo in parti uguali tra diminuzione degli investimenti fissi lordi (-2,6%) e della domanda estera netta (-2,4%). Ora il commercio mondiale è impiombato: rimbalzi a parte, credo ci vorranno sei mesi o un anno per vedere un ritorno alla normalità.
Rispetto agli altri Paesi europei cosa si può dire del dato italiano?
Che il crollo tendenziale del Pil è stato inferiore a quello di Francia e Spagna. In Germania è stato registrato un -11,3%, ma c’è stata una caduta del 20,8% del valore aggiunto dell’industria manifatturiera. Il calo italiano è stato quindi meno drammatico che altrove, ma pone un problema di fondo, cioè come venire fuori da questa situazione.
Quale può essere la via d’uscita?
Il problema è comune a tutti i Paesi dell’Ue. Per questo serve uno sforzo corale europeo, bisogna costruire una strategia europea.
Per questo è stato creato il Recovery fund…
Il rischio è pensare che una volta attivato il piano tutto tornerà come prima nel giro di 2-3 anni, ma non può essere così. Più che un Recovery fund, serve un rebuilding, una ricostruzione, dell’Europa, nel senso che occorre proprio creare un progetto da dopoguerra. Negli anni ’50 del secolo scorso l’Europa ha puntato sull’Euratom, sulla Ceca, poi è arrivata la Pac. Si trattava di progetti di economia reale, in cui c’era anche una forte collaborazione tra i Paesi.
Con il Recovery fund si mettono a disposizione dei Paesi ingenti risorse: per l’Italia 209 miliardi di euro.
Il carburante vero di un progetto non è fatto solo dai finanziamenti, ma anche da un accordo tra i grandi Paesi fondanti. Per avere un ruolo anche negli anni ’30 e ’40 di questo secolo, quando Usa e Cina avranno ripreso la loro marcia e saranno sempre più forti nella ricerca scientifica, nell’informatica, nelle nuove tecnologie, occorre che le manifatture, le industrie, i servizi europei evolvano verso un progetto che possa realmente permettere all’Europa di essere un player mondiale.
Occorrerebbe un progetto condiviso da tutti i Paesi dell’Ue o basterebbe un accordo tra quelli principali?
I Paesi leader – Germania, Francia, Italia e Spagna – decidendo di lavorare insieme possono dare un imprinting a tutto il progetto. Si potrebbero mettere a fattore comune risorse, collegamenti digitali, stradali, ferroviari, investimenti sulla formazione. Per fare un esempio, se in Italia bisogna incrementare il risparmio energetico, perché non usare le tecnologie tedesche? E se la Germania deve costruire ponti perché non utilizza le tecnologie impiantistiche italiane? In un frangente come questo si possono trovare occasioni di collaborazione. C’è tutto un sistema manifatturiero, di servizi, di grandi reti, che questi Paesi possono decidere di implementare con una politica di domanda pubblica europea. Credo che gli altri Stati non avrebbero problemi ad aggregarsi. In caso contrario potremmo anche non preoccuparcene. L’importante è che capiscano l’occasione che rischierebbero di perdere.
Un’occasione di vera ripresa?
Si potrebbero finalmente lasciare da parte le divisioni tra falchi e colombe. Si potrebbero mettere in secondo piano le regole sui conti pubblici privilegiando progetti con impatto importante sull’economia reale. Se non si farà questo passo si potrà solo sperare in rimbalzi del Pil, che pure ci saranno, ma resteremo un continente che rispetto a Cina e Usa sarà sempre un passo indietro. Gli Stati Uniti, chiunque vincerà le elezioni di novembre, potranno contare su un progetto economico monstre per ripartire. La Cina è in grado di movimentare risorse imponenti. L’Europa non dovrebbe perdere l’occasione per sviluppare quei settori dove è stata sempre un po’ in ritardo, anche tramite investimenti in formazione.
L’Italia in tutto questo cosa avrebbe da guadagnare?
La ricchezza finanziaria delle famiglie italiane resta superiore a quella di Germania e Francia, ma dalla metà dello scorso decennio da noi non cresce più, mentre negli altri due Paesi sì. Questo perché reddito e risparmio in Italia sono diminuiti. Bisogna far ripartire l’occupazione, specie dei giovani, altrimenti la situazione non potrà che peggiorare. Un progetto europeo come quello di cui ho parlato non solo aiuterà a creare lavoro, ma potrà contribuire a ridurre il divario tra nord e sud del Paese.
(Lorenzo Torrisi)