E’ allarme Pil, con un calo “mai visto”: secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio, infatti, l’attività economica in Italia nella prima metà dell’anno si ridurrà “cumulativamente di circa 15 punti percentuali”. A fronte di questa caduta libera, “di intensità eccezionale, mai vista nella storia della nostra Repubblica”, il premier Giuseppe Conte, nell’informativa resa all’Aula del Senato, ha affermato che “dobbiamo potenziare ulteriormente la nostra risposta di politica economica”. Perciò, in aggiunta ai 25 miliardi di euro già stanziati con il ‘Cura Italia’, il governo “invierà a brevissimo al Parlamento un’ulteriore relazione contenente la richiesta di scostamento dagli obiettivi di bilancio pari a una cifra davvero consistente, non inferiore a 50 miliardi di euro” così da portare l’intervento complessivo a non meno di 75 miliardi di euro. Sarà davvero a brevissimo, visto che lo stesso decreto aprile continua a essere rinviato? Quando e come partirà la fase 2? La burocratizzazione dei provvedimenti non rischia di vanificare gli sforzi a favore delle imprese e dell’economia reale? Che cosa chiede il mondo produttivo italiano? E che cosa dobbiamo aspettarci dalla Ue? Ne abbiamo parlato con Guido Gentili, editorialista del Sole 24 Ore.



L’Ufficio parlamentare di bilancio ha fornito stime allarmanti: Pil in calo del 15% nel primo semestre, un tracollo mai avvenuto nella storia della Repubblica. Si corre davvero il rischio di compromettere la capacità produttiva del nostro paese, che è pur sempre la seconda potenza manifatturiera d’Europa?

Assolutamente sì. Nel 2019 noi non avevamo ancora recuperato i livelli pre-crisi 2008 ed eravamo l’unico tra i paesi industrializzati a crescita zero. Portando sulle spalle questa zavorra storica, se già prima si diceva che avevamo dovuto affrontare una guerra, oggi ci troviamo a fronteggiarne un’altra, planetaria e ancora più devastante di quella del 2008 e degli anni successivi. Dieci anni fa abbiamo rischiato parecchio e abbiamo perso quote importanti dell’apparato industriale italiano, oggi rischiamo davvero l’affondamento.



Davanti a queste cifre allarmanti e a questa drammatica prospettiva, il premier Conte ha annunciato nuove misure. Come si sta comportando il governo rispetto all’avvio di una fase 2 di ripresa economica?

Si muove navigando a vista, ha molte difficoltà a individuare una rotta precisa e al di là degli annunci e dei proclami tutto finisce, come sempre, nel tunnel delle proroghe, delle deroghe, dei meccanismi di silenzio/assenso.

Perché?

Un po’ per l’estenuante esigenza di dover mediare tra posizioni e sensibilità diverse all’interno della sua maggioranza, con evidenti ricadute sulla stesura stessa dei provvedimenti. Un po’ perché continua sotto traccia una campagna elettorale permanente, per cui le misure vengono assunte tenendo conto solo di questo orizzonte temporale. Infine, c’è una catena di comando polverizzata che si commenta da sola: 15 task force, 450 esperti, commissioni a tutti i livelli, dallo Stato alle Regioni fino ai Comuni.



Intanto il Consiglio dei ministri, che dovrebbe decidere su nuovo scostamento di bilancio e Def, è stato ancora rinviato…

E’ tutto in ritardo, compreso il decreto aprile che forse dovrà essere ribattezzato decreto maggio. Quando a marzo è scoppiata l’emergenza coronavirus si era subito detto che entro Pasqua sarebbe arrivato un decreto con le prime misure per affrontare la ripartenza economica. In realtà, i tempi si sono allungati, un po’ per l’oggettiva eccezionalità e complessità della situazione economica, un po’ perché continuiamo a fare i conti con i problemi di sempre: la difficoltà della maggioranza a trovare un punto di sintesi, tra Italia Viva, che spinge con forza per una riapertura, e il M5s, molto più prudente, come lo stesso premier Conte.

Si parla di un Def che potrebbe prevedere l’azzeramento delle clausole di salvaguardia. E’ uno scenario possibile?

E’ uno scenario possibile, ma solo perché siamo in un quadro dove tutto sembra possibile o impossibile. La stessa emergenza internazionale, come dimostra il caso del prezzo del petrolio, supera qualsiasi previsione anche futuribile. Siamo mani e piedi in una situazione del tutto eccezionale. Si prospetta un deficit/Pil intorno all’8% e un debito che può toccare in prospettiva anche il 160%. Numeri assolutamente impensabili, ma è altrettanto impensabile che l’Italia possa continuare su una strada simile, facendo deficit e debito a volontà, anche in vista del negoziato con la Ue.

A tal proposito, l’Europa è divisa tra Eurobond, Mes o coronabond. Cosa succederà?

Non ho ancora capito quale sia la posizione dell’Italia, anche se, solo ieri, siamo venuti a conoscenza dal premier Conte che il nostro paese ha presentato in via riservata una proposta a favore dei Recovery bond. Finora ci si era limitati a dire no al Mes, perché giudicato inadeguato, anche se privo di condizionalità, ma all’interno di un dibattito ideologico inquinato da una sotterranea campagna elettorale permanente. Il rischio è che il vertice Ue di domani possa anche concludersi con un sostanziale nulla di fatto. Non è detto che vengano messi in campo strumenti diversi di condivisione rispetto al Mes.

Così fosse, per l’Italia sarebbe una pessima notizia, perché al di là del Quantitative easing della Bce, in assenza di risorse dalla Ue, non rischiamo un ulteriore rallentamento delle decisioni governative a favore della ripresa economica?

Certo. Per fortuna alle spalle abbiamo il sostegno molto forte della Bce, come si è visto con lo spread: è vero che è salito sopra quota 250, ma senza il Qe saremmo in guai ben peggiori. Senza una decisione Ue, però, si verrebbe a creare un’area grigia. E se la soluzione fosse il Mes, ancorché senza condizioni e ancorché per finanziare i costi diretti e indiretti della sanità, vista l’opposizione del governo e di parte della maggioranza significherebbe perdere 37 miliardi in un ambito in cui abbiamo molto bisogno di risorse.

Gli investimenti pubblici dove sono spariti? Arriverà il momento in cui il governo dovrà pur rilanciarli, non crede?

Anche prima del Covid-19, le risorse annunciate erano sempre ingenti, poi in realtà questi soldi erano scritti solo sulla carta e il sistema non era in grado di passare dalle parole ai fatti, perché nella rete delle regole e della burocrazia tutto si incagliava. Anzi, negli anni dopo la crisi del 2008 gli investimenti fissi sono stati spesso tagliati, a differenza delle spese correnti improduttive. Adesso sarebbe il momento di dare una grossa spinta.

Intanto si attende il decreto aprile, che secondo Conte dovrebbe mettere sul piatto 50 miliardi. Alla luce dell’attuale situazione economica, che misure dovrebbe prevedere?

La prima preoccupazione è non disperdere le risorse in un mare di rivoli, altrimenti non si riuscirà a dare adeguato sostegno per uscire dall’emergenza.

Un esempio concreto?

Se ne discute da anni, ma prevedere la restituzione dei debiti della Pa alle imprese, e parliamo di circa 30 miliardi, sarebbe una misura elementare, ma molto efficace. Un’operazione a costo zero e senza complicazioni burocratiche.

Proprio la burocrazia frena il decreto liquidità. Come e dove migliorarlo?

Il decreto liquidità soffre di un difetto all’origine: la necessità di dover contemperare esigenze politiche contrapposte, come si è visto nella competizione tra ministro dell’Economia e ministro degli Esteri sul ruolo della Sace. Per le banche, poi, che fanno da tramite in questa operazione di garanzia dello Stato a favore delle imprese, non essendo state cambiate o sospese le regole sugli affidamenti, in fase di istruttoria si è determinata una complessità operativa, che non solo ha costretto a un duro lavoro la stessa Abi, ma ha indotto le procure di Milano e di Napoli a lanciare l’allarme su possibili infiltrazioni mafiose o sulla possibilità che tra i beneficiari della liquidità possano infilarsi anche molti “furbetti”, pronti a coprire posizioni debitorie maturate prima dello scoppio dell’emergenza. Ci sono tante criticità, la gestione non è stata efficace come promesso e non si può certo dire che stanno arrivando 800 miliardi all’economia reale.

Rezza ieri ha detto che per gli scienziati un rischio accettabile è pari a zero, mentre per gli economisti è pari a 10, tocca alla politica trovare una sintesi. Tutela della salute e ripresa economica sono in aperta contrapposizione?

No, non dovrebbero essere in contrapposizione. Più che una mediazione tra zero e dieci, lo sforzo da compiere è trovare una scelta responsabile e condivisa, fuori dai confronti ideologici. Ci sono tutte le condizioni per ripartire in sicurezza, senza abbassare la guardia sul fronte della salvaguardia della salute, come mostrano diverse esperienze all’estero. Ma per far questo serve un governo che abbia le idee chiare.

Il nuovo presidente designato di Confindustria, Bonomi, che richieste avanzerà al governo per uscire da questa situazione?

La prima esigenza sarà avviare un confronto serrato, trasparente e aperto, evitando scorciatoie e accordi gravati da protocolli eccessivi. In secondo luogo, come del resto ha già fatto, spingerà con forza sulla compensazione debiti-crediti tra imprese e Pa. In terzo luogo, chiederà di delimitare i campi, nel senso di evitare che questa emergenza presti il fianco a un nuovo statalismo in economia, riesumando per esempio una nuova Iri con tutto quello che ne consegue. E’ giusto che il mondo delle imprese chieda allo Stato non di fare di più, allargando la sua influenza e rafforzando la sua presa, ma di fare meglio, svolgendo il suo ruolo di buon regolatore.

In questo momento eccezionale, il petrolio – cosa mai vista né mai ipotizzata finora – è arrivato prima a quotazioni negative e poi vicine allo zero. Che cosa significa per la nostra economia?

Qualcosa di più di un tonfo congiunturale: può significare depressione e avvitamento in una crisi molto simile a quella del 1929.

(Marco Biscella)

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