Dalla Commissione europea, attraverso le previsioni macroeconomiche estive, è arrivato un nuovo segnale positivo per la ripresa dell’Italia. Quest’anno, infatti, il Pil è visto in crescita del 5% (contro le stime del 4,2% di primavera), grazie soprattutto a una risposta superiore alle attese dell’economia al venir meno delle restrizioni alla mobilità e alle attività. Paolo Gentiloni ha evidenziato che “tutte le economie dell’Ue raggiungeranno o supereranno i loro livelli pre-pandemia al più tardi entro il terzo trimestre 2022”, ma che questi livelli restano inferiori a quelli attesi prima della pandemia. Per il commissario europeo agli Affari economici, è importante ora “mantenere lo slancio dei vaccini”.
Appare infatti chiaro che una nuova ondata di Covid frenerebbe la ripresa, ma, come ci spiega Mario Deaglio, Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, che oggi presenterà il XV Rapporto sull’economia globale e l’Italia (edito da Guerini e Associati) promosso dal Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi e da Intesa Sanpaolo, non è questo l’unico rischio che corriamo a livello economico.
Professore, oltre al Covid cosa potrebbe allontanarci da una ripresa così importante e superiore alle attese?
In realtà, il vero rischio è che ci si fermi a quel +5%. In un certo senso è più un rischio culturale che economico. È infatti abbastanza diffusa l’idea che l’economia sarà “guarita” se ritornerà ai livelli pre-Covid. Sembra mancare la prospettiva di andare ulteriormente avanti, non si percepisce il pericolo di tornare a scendere.
È un pericolo concreto?
Per tutta l’Europa, non solo per noi, le previsioni per i prossimi 20-30 anni parlano di un divario crescente rispetto all’Asia, non solo la Cina, e, in misura minore, gli Stati Uniti, che sono però alle prese con una forte crescita delle disuguaglianze. Il recupero in atto è quindi una condizione necessaria, ma non sufficiente per evitare di perdere terreno in prospettiva. Bisogna anzitutto cambiare la nostra mentalità, abbandonando in primo luogo la complicazione degli affari semplici che ci ha sempre contraddistinto.
Quello della mancata semplificazione è un problema prettamente italiano, ma se il rischio di arretramento riguarda anche il resto d’Europa, da che cosa dipende principalmente?
Secondo me, in primo luogo dalla demografia. Siamo sensibilmente più vecchi del resto del mondo. Questo per un verso è certamente un dato positivo, perché vuol dire che in Europa si vive di più che altrove, ma se si continuano a fare meno figli, chiudendo al contempo le porte ai migranti, non ci sono molte prospettive per porre rimedio al cosiddetto “inverno demografico”.
La crescita superiore alle attese può portare a frenare le politiche espansive e quindi a rallentare la crescita?
Il rischio c’è e non solo in Italia. Purtroppo è più facile frenare che accelerare e può risentirne tutto il continente.
Nonostante il Recovery fund?
Purtroppo sì. L’Europa dovrà controllare come tutti i Paesi, non solo l’Italia, useranno le risorse. C’è però un problema: se il Recovery fund viene utilizzato solamente per rimediare alle cose non fatte, come per esempio la manutenzione delle infrastrutture, non si fa molto strada. Bisogna che ci siano progetti che guardino al futuro. Occorre cominciare a porsi il problema di che Italia si vuole tra 20 anni.
C’è un problema di mentalità e progettazione del futuro, ma forse servono anche delle risorse in più a livello europeo.
Sì, penso di sì. I sei anni del Recovery fund possono rappresentare un inizio, la fase in cui combattere duramente contro l’arretramento, ma poi occorre ampliare gli orizzonti. Senza tornare indietro anche come impostazione di politica fiscale a livello europeo.
(Lorenzo Torrisi)
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