Il quarto trimestre dello scorso anno si è chiuso con un Pil in calo congiunturale del 2%. L’Istat ieri ha fatto anche sapere che “nel 2020 il Pil corretto per gli effetti di calendario è diminuito dell’8,9%, mentre per il Pil stimato sui dati trimestrali grezzi la riduzione è stata dell’8,8%”. Un calo inferiore rispetto a quelli previsti dal Governo nella Nadef (pari al -9%) e dal Fondo monetario internazionale la scorsa settimana (-9,2%). Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, raffredda però gli entusiasmi su questo dato, «soprattutto se comparato alla situazione internazionale e se visto nella prospettiva storica italiana»



Partiamo dalla comparazione rispetto alla situazione internazionale. Cosa emerge?

Ci si consola per il -2% congiunturale registrato nel quarto trimestre del 2020. Tuttavia nello stesso periodo la Germania ha fatto registrare un +0,1%, la Spagna un +0,4% e la Francia un -1,3%. I nostri tre principali partner nell’Eurozona sono andati quindi meglio di noi. Si tratta di Paesi che, avendo avuto una crescita più forte della nostra negli ultimi 20 anni, entro il 2022 potranno tornare ai livelli di Pil precedenti il 2019.



Per noi non sarà così?

No. La comparazione storica, come mostra un grafico che ho predisposto (e che riportiamo più in basso, ndr), evidenzia che con i 402,2 miliardi a prezzi costanti del quarto trimestre del 2020 siamo poco sopra i 400 miliardi del terzo trimestre del 1999. Dubito che nella prima parte del 2021 riusciremo a crescere molto, complici le misure restrittive prolungate delle attività economiche e il turismo ancora fermo, mentre nella seconda parte dell’anno se anche riuscissimo ad avere una ripresa di un punto e mezzo o due a trimestre chiuderemmo ai livelli di inizio secolo. Per essere chiari, se anche arrivassimo a 420 miliardi, si tratterebbe di un dato in linea con quello del quarto trimestre del 2000.



La situazione quindi è tutt’altro che rosea…

Bisogna cercare di guardare i dati nella loro complessità. Il calo registrato nel 2020, se anche fosse rivisto in meglio rispetto alla stima del -8,8%, non cambia di molto la situazione. Prendendo per buone le previsioni della Banca d’Italia e del Fmi sul 2021, che variano dal +3% al +3,5%, significa che avremo un altro anno con livelli di redditi, Pil e ricchezza che sono quelli del 2000.

Cosa si può fare per evitare questo scenario?

Come ripeto da tempo, occorre far partire subito investimenti pubblici per 30 miliardi di euro. È necessario, però, non solo realizzare in tempi record queste opere, ma pagare senza ritardi fornitori e lavoratori delle costruzioni, garantendo quindi liquidità alle aziende e redditi ai lavoratori. Se entro febbraio si deciderà di dare il via alle stazioni appaltanti per tratte autostradali, ferroviarie e altre infrastrutture bene, altrimenti lasceremo il 2021 muoversi sulle sue fragilissime gambe.

Questo è quindi un chiaro messaggio per il Governo che verrà.

È fondamentale che il nuovo esecutivo proceda al più presto in questa direzione. Non basta infatti mettere a punto un buon Recovery plan con riforme per colmare i grandi divari del nostro Paese, ma occorre che l’economia possa essere stimolata con il recupero degli investimenti che sono bloccati. A quel punto il Recovery plan ci darà sicurezza sull’inizio di un percorso virtuoso che ci farà utilizzare al meglio le risorse europee. Il fatto è che non possiamo permetterci, dopo tutti i disagi che ci sono già stati, di non avere una ripartenza minimamente accettabile nel 2021. Se gli investimenti non saranno sbloccati sarà una sconfitta per tutto il sistema politico italiano che non ha ancora capito che con la sola Cina che traina il commercio internazionale e con la domanda privata completamente ferma l’unica cosa che può dare veramente crescita al Pil nel 2021 sono gli investimenti pubblici.

Sulle prospettive di ripresa incombono anche le previsioni della Banca d’Italia, secondo cui il calo del Pil del 2020 porterà a 6.500 fallimenti d’impresa entro il 2022, che potranno essere compensati dalla crescita economica soltanto per un quinto circa.

Non mi avventuro in previsioni sul numero di fallimenti, ma la Banca d’Italia ha certamente strumenti adeguati per questo tipo di valutazioni. Quel che è certo è che un problema simile ci sarà per quel che concerne il mercato del lavoro, i cui equilibri reali sono stati falsati finora dal blocco dei licenziamenti e dai prolungati ammortizzatori sociali. Nonostante queste misure, l’Istat lunedì ci ha detto che l’anno scorso sono stati persi più di 400mila posti, perlopiù tra gli autonomi e i dipendenti a termine. Ancora la crisi non ha presentato il conto per quel che riguarda i lavoratori a tempo indeterminato. La situazione è perciò drammatica e per questo dico che non possiamo cullarci per un calo del Pil inferiore alle previsioni senza agire per stimolare la ripresa

La fine di marzo si avvicina, lei ritiene che il blocco dei licenziamenti vada rimosso?

Occorre un ragionamento complessivo, soprattutto perché le risorse a disposizione non sono infinite. Credo bisognerà valutare degli interventi selettivi sugli ammortizzatori sociali, avviando nel contempo piani seri di politiche attive che dovranno occuparsi dei lavoratori dipendenti che rischiano il licenziamento. È poi cruciale che oltre agli investimenti pubblici di cui ho parlato prima si metta in campo una seria campagna vaccinale.

Specie in considerazione dei ritardi che ci saranno nelle consegne dei vaccini…

A prescindere da questi ritardi, bisogna che ci sia un piano per raggiungere quanto più rapidamente possibile la maggioranza della popolazione e che sia adattabile all’evenienza di una reiterazione almeno nell’arco dei prossimi due anni, tenuto conto che non ci sono certezze sulla durata dell’immunizzazione. È un aspetto cruciale non solo a livello sanitario, ma anche economico, perché il ristoro più importante che si possa garantire alle imprese è la tranquillità sulla propria operatività, che passa dall’immunità di gregge. Io credo che occorra una programmazione quasi militare della campagna vaccinale. Non dico che debba farla l’esercito, ma che sia in grado di garantire al sistema economico e sociale le condizioni di sicurezza per poter tornare alla normalità.

(Lorenzo Torrisi)