Nonostante la cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti, misure che sono state prorogate con il Decreto agosto, gli effetti della crisi da Covid sul mercato del lavoro si sono fatti sentire nei mesi scorsi. Secondo i dati Istat, da febbraio a giugno gli occupati sono diminuiti di circa 600.000 unità e c’è da sperare che questa emorragia possa essere frenata nel resto dell’anno. Al tema del lavoro è dedicato l’incontro (“Un nuovo mondo del lavoro, nuovi modi di lavorare”) a cui oggi parteciperà Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, nell’ambito del Meeting di Rimini.
Come sta impattando la crisi sul mercato del lavoro?
Dopo lo scoppio della pandemia, si è manifestata una relativa tenuta dell’occupazione a tempo indeterminato, perché fortemente sostenuta dai provvedimenti varati, mentre è calata in modo consistente quella legata a contratti a tempo determinato che sono arrivati a scadenza e non sono stati rinnovati. A giugno, tuttavia, il mercato del lavoro ha mostrato segnali di cambiamento: si è rilevata una ripresa, seppure minima, dell’occupazione a tempo determinato, primo timido segnale di una ripresa delle attivazioni, dopo una fase di sostanziale blocco dovuta al lockdown e alla forte incertezza sulle prospettive dell’attività economica. Parallelamente, è aumentato in modo consistente il numero di persone in cerca di lavoro. Più in generale, di fatto la parola d’ordine non è più flessibilità, ma è diventata, anche in prospettiva per il futuro, lavoro a distanza, vale a dire la separazione tra lavoratore e luogo di lavoro. In questo senso è interessante un’indagine campionaria molto ampia che Istat ha svolto nel mese di maggio presso le aziende, principalmente manifatturiere, con almeno tre dipendenti.
Cos’è emerso di interessante da questa indagine?
Che in certi casi è molto difficile, quasi impossibile, soprattutto per le piccole imprese, distanziare il lavoratore dal luogo di lavoro, mentre quelle più grandi hanno più possibilità di farlo. Poi è anche il settore di appartenenza a fare la differenza. Per esempio, il manifatturiero piuttosto che i servizi alberghieri o altri in cui la presenza è fondamentale non hanno la stessa facilità a operare questo distanziamento come sembra possa avvenire nel farmaceutico. Dunque contano due elementi: il settore di appartenenza e la dimensione aziendale.
I lavoratori, dove possibile, sarebbero invece pronti a questa nuova modalità di svolgimento delle proprie mansioni?
In questo caso, l’ostacolo principale è rappresentato dalle strutture fisiche di telecomunicazione. Certo occorre anche fare in modo che ci sia una capacità dei lavoratori di utilizzare strumenti diversi da quelli tradizionali, ma occorre anche una struttura tecnica che consenta di poterlo fare. Sul primo punto c’è da dire che il confronto internazionale relativo all’alfabetizzazione informatica non ci vede molto avanti rispetto agli altri Paesi. Non siamo gli ultimi, ma c’è ancora molto da fare.
Cosa ci può dire tutto questo rispetto all’ipotesi di una seconda ondata? Le imprese più piccole e del settore manifatturiero, che non sono poche nel nostro Paese, sarebbero in difficoltà?
Parrebbe di sì. Ovviamente speriamo tutti che una seconda ondata non ci sia, ma se ci dovesse essere potrebbe avere un’intensità diversa dalla prima e potrebbe esserci anche un sistema di protezione più preparato. Abbiamo fatto delle esperienze non solo dal punto di vista sanitario, ma anche organizzativo ed economico e abbiamo capito che certe mosse funzionano di più e altre meno: questo ci potrà essere d’aiuto. È evidente che quanto più un’impresa ha capacità di adattamento, strutture organizzative flessibili e capitali, tanto meno sarà in difficoltà. Bisognerà trovare una modalità con cui aiutare le aziende, dove necessario, a minimizzare gli effetti. Ci vorrà una rapida capacità di azione, una chiara visione dei problemi per capire dove e come intervenire “in diretta”.
Colpisce comunque il calo dell’occupazione registrato in questi mesi. Pensando anche che Cig e blocco dei licenziamenti andranno a scadenza, più avanti potremmo assistere a un aumento importante della disoccupazione?
Il calo dell’occupazione ha riguardato soprattutto i lavoratori che non avevano sistemi di protezione particolari. Non essendoci poi stati nuovi avviamenti, se non in misura modesta, lo stock complessivo degli occupati si è ridotto. Non dobbiamo poi dimenticare che il clima particolare del momento, soprattutto di natura economica, ha scoraggiato i potenziali lavoratori a offrirsi. Abbiamo avuto quindi ancora un tasso di disoccupazione contenuto anche perché è diminuita la forza lavoro, cioè le persone che si sono messe in ricerca di un’occupazione. Gli scoraggiati sono aumentati, ed è quindi importante che si creino le condizioni perché ci siano più attivi, fare in modo cioè che le persone ritengano di poter essere produttive.
Sarà importante anche che funzionino sgravi, incentivi e decontribuzioni che sono stati messi a punto con il Decreto agosto…
Assolutamente. Qualche segnale positivo l’abbiamo comunque avuto nella produzione industriale, nell’export, nel fatturato dell’industria. Qualcosa si sta muovendo e dobbiamo fare in modo che questi segnali di vivacità possano avere un impatto positivo sull’offerta di lavoro, sia in termini di occupazione, sia in termini di disponibilità a lavorare.
Prima ha ricordato che l’Italia era riuscita a recuperare i livelli di occupazione precedenti la crisi del 2008. Potrebbero volerci ancora più di dieci anni per ritornare ai livelli pre-Covid?
Mi auguro di no. Per usare un’immagine, ci vorrebbe la stessa capacità di reazione che si è avuta per la ricostruzione del Ponte di Genova, dove sono bastati due anni per completare un’opera che in altri frangenti ne avrebbe richiesti di più. Mi permetto di suggerire la stessa flessibilità da parte delle istituzioni rispetto a quelli che sono i famosi lacci e lacciuoli che pesano sul sistema economico. Bisognerebbe identificare delle vie che, nel rispetto della legalità ovviamente, e soprattutto nel recupero dell’assunzione di responsabilità di ciascuno, accelerino i processi di ripresa. Solo così possiamo avere uno shock positivo in grado di farci tornare ai livelli pre-Covid non nel 2030, ma nell’arco di poco tempo.
Secondo l’Istat, il 38,8% delle imprese rischia la chiusura quest’anno. Quali sono più esposte?
Questo rischio è più forte per le piccole imprese e per quelle che hanno problemi di ordine finanziario. In un momento in cui non ci sono state entrate, è chiaro infatti che una delle maggiori difficoltà per le aziende è relativa alla liquidità. Naturalmente sono anche più esposte quelle appartenenti ai settori come la ristorazione, il commercio, il turismo e dove è più importante il contatto con la clientela. Per tutte queste situazioni più a rischio sarebbe importante fornire dei sostegni.
Anche perché se le imprese chiudono poi ne risentono i lavoratori…
Sì, anche perché per certi settori e imprese esiste un indotto che può risentirne. Non dobbiamo poi scordarci che in questi mesi ci siamo concentrati molto sugli aspetti sanitari dell’emergenza, ma esiste anche una realtà sociale dove potranno emergere rischi legati alla mancanza di reddito. Bisognerà cercare di anticipare questi problemi. È anche per questo che come Istat stiamo cercando di realizzare una sorta di osservatorio, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità e con un consorzio universitario, per cercare di intercettare i segnali di disagio e di difficoltà, dei focolai, intendendo con questo termine una situazione locale preoccupante non solo dal punto di vista sanitario, ma anche economico-sociale.
Quale sarebbe l’obiettivo di questo osservatorio?
Scoprire dove possono esserci situazioni più a rischio, in modo che si possa poi intervenire prima che nascano problemi più seri. Questa credo possa essere una delle funzioni importanti da assegnare alla statistica, alle istituzioni che raccolgono informazioni da tramettere poi all’amministrazione o a chi governa per assumere i provvedimenti più adatti. Mi sembra un modo per fare ciascuno la propria parte e far sì che le conseguenze negative di questa crisi possano essere quanto più possibile contenute.
(Lorenzo Torrisi)