L’occupazione, in Italia, resta un problema tuttora non risolto. Ne parla la Fondazione Openpolis attraverso un’istantanea dello stato di fatto in questo scorcio del 2019, mentre il consueto Rapporto Excelsior – a cura di Unioncamere – azzarda una previsione sui fabbisogni dei prossimi anni (2019-2023). Si tratta comunque di un confronto interessante, anche perché si porta appresso le aspettative per il ricambio generazionale a seguito delle misure che stanno favorendo soluzioni di prepensionamento (Quota 100 e gli altri provvedimenti collegati). Cominciamo da Openpolis e dalle sue valutazioni.
“Il 2020 è a un passo, gli obiettivi della strategia Ue per la crescita invece sono tutt’altro che a portata di mano. In particolare quando si parla di lavoro, infatti, c’è poco da stare allegri: l’Italia ha raggiunto appena un tasso di occupazione del 63%, impensabile arrivare da qui a poco all’asticella del 67% fissata da Bruxelles. Dunque, a un anno dal termine stabilito quasi dieci anni fa, il nostro Paese è ancora piuttosto distante dal suo target”. Ciò a fronte di una media Ue del 72%. Ma anche l’Europa dovrà “marcare visita” perché non sembra possibile che possa raggiungere il tasso del 75% che costituiva l’obiettivo per il 2020. L’Italia rimarrà comunque al penultimo posto, seguita dalla Grecia che sfiora il 58%.
Il Rapporto della Fondazione Openpolis si diffonde poi sulle differenze regionali tra Nord e Sud e di genere (il divario occupazionale tra uomini e donne, pur essendo in miglioramento, presenta un trend tuttora preoccupante). Il Rapporto Excelsior, redatto e pubblicato insieme all’Anpal chiarisce, innanzitutto, il modello di previsione, soffermandosi in primo luogo sull’evoluzione dello stock degli occupati a livello settoriale sino al 2023.
Per ciascun settore le variazioni annuali dello stock di occupati identificano la domanda di lavoro incrementale (expansion demand), che può essere di segno sia positivo che negativo (a seconda, ovviamente, degli andamenti dell’economia). Tuttavia, l’expansion demand costituisce solo una parte del fabbisogno complessivo: anche in settori in crisi, nei quali si verifica una contrazione complessiva dei livelli di impiego, vi sono infatti opportunità di lavoro che si aprono. Occorre considerare, poi, un’ulteriore componente della domanda di lavoro: la cosiddetta replacement demand, costituita dalla domanda che deriva dalla necessità di sostituzione dei lavoratori in uscita (per pensionamento, mortalità, dimissioni o qualunque altra causa di abbandono dell’impiego), con l’eccezione della mobilità intersettoriale e interaziendale.
Complessivamente, il modello di stima prevede – a seconda degli scenari di crescita ipotizzati – che tra il 2019 e il 2023 lo stock nazionale di occupati possa aumentare in una misura compresa tra 374.000 e 559.000 unità, a un tasso medio annuo che potrà quindi variare tra lo 0,3% e lo 0,5%. L’expansion demand sarà trainata dalla componente relativa ai lavoratori dipendenti, che si prevede possa incrementarsi a un tasso annuo compreso tra lo 0,5% e lo 0,6%; mentre i lavoratori indipendenti potranno andare da un minimo del -0,2% e un massimo dello 0% (cioè nel migliore dei casi resteranno invariati).
Per quanto riguarda l’andamento previsto della replacement demand, questa potrà variare tra 2.351.700 e 2.470.700 unità nel periodo 2019-2023. Si stima un tasso medio annuo di replacement compreso tra l’1,9% e il 2% per i lavoratori dipendenti, mentre si attesterà intorno al 2,6-2,7% per i lavoratori indipendenti. La componente privata coprirà tra il 75% e il 76% della replacement demand, mentre il settore pubblico concorrerà per una quota compresa tra il 24% e il 25% del totale.
A partire dalle previsioni di crescita e dalle ipotesi sull’evoluzione dei pensionamenti e della mortalità sono stati calcolati i fabbisogni lavorativi complessivi, che saranno compresi tra 2.725.500 e 3.029.800 unità nei prossimi cinque anni, per un tasso di fabbisogno medio annuo previsto che si collocherà tra il 2,4% e il 2,6%. Questo fabbisogno si concentrerà in gran parte nei servizi. Il tasso complessivo di fabbisogno è più alto per il settore pubblico rispetto al settore privato, data la sua maggiore necessità di sostituire il personale in uscita: il tasso di replacement nel settore pubblico è infatti significativamente più alto del settore privato. (Facendo poi un accenno ai dati disaggregati per ripartizione territoriale, si riscontra in entrambi gli scenari che la parte più consistente di fabbisogno sarà espressa dal Nord-Ovest (da 817.700 a 912.700 unità), seguito dal Mezzogiorno (tra 716.100 e 790.800 unità).
L’analisi del fabbisogno occupazionale complessivo per grande gruppo professionale (classificazione Istat) evidenzia una netta prevalenza delle professioni commerciali e dei servizi (con una quota che sarà compresa tra il 24% e il 25% del totale), seguite dalle professioni tecniche (previste attorno al 17%) e da quelle specialistiche (16%). Seguono poi con un certo distacco gli operai specializzati (12-13%), le professioni impiegatizie (attorno al 9%) e le professioni non qualificate (12-13%). I conduttori di impianti industriali e di mezzi di trasporto si attestano poi al 7-8%, mentre risulta piuttosto marginale (1%) la quota delle professioni dirigenziali.
È evidente che tale distribuzione professionale non può che riflettere le trasformazioni in atto già da tempo nell’assetto occupazionale di un Paese sempre più orientato verso la terziarizzazione dell’economia. La struttura professionale del nostro Paese dovrà evolversi per allinearsi alle richieste di nuove competenze nel campo della digitalizzazione e della sostenibilità ambientale, nonché ai fabbisogni delle filiere trainanti la domanda di lavoro. La “Digital Trasformation”, così come l’economia circolare, richiederanno sempre più profili professionali con competenze scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche. Non solo. Profili più specializzati saranno richiesti anche dalle filiere “salute e benessere”, così come “education e cultura, “mobilità e logistica” e “meccatronica e robotica”.
Una prima domanda che questo approfondimento suggerisce, quindi, è la seguente: ci sarà un numero adeguato di specialisti e di tecnici, pronti a entrare nel mercato del lavoro, opportunamente orientati e formati dalla scuola, dall’istruzione professionale e dall’università per fronteggiare queste esigenze?