Parlare di crisi, dopo undici anni di casse integrazioni – ordinarie e straordinarie -, licenziamenti collettivi, concordati preventivi e fallimenti, è quantomeno inappropriato. Si presuppone che “crisi” indichi un fenomeno passeggero di cui ci si potrà liberare prima o poi, tornando alla vecchia “normalità”. Al contrario il settore manifatturiero italiano si trova a fronteggiare un cambiamento epocale, da cui sarà impossibile tornare indietro. È quindi necessario, per non essere spazzati via dal futuro, iniziare a capire cosa sta succedendo e perché, così da poter reagire prima che sia troppo tardi.
L’industria del mobile, ad esempio, da sempre uno dei fiori all’occhiello del made in Italy – come dimostra la positiva conclusione della 58° edizione del Salone del mobile – rischia un clamoroso declino. Il 9 agosto 2019 Meritalia, che da più di trent’anni produceva imbottiti e mobili di alta qualità, ha licenziato tutti i dipendenti e cessato di fatto la propria attività produttiva; l’ennesima storica azienda brianzola che non è riuscita a reggere l’urto dei tempi. La scomparsa di Meritalia segue altre due famigerate bancarotte: Swan Italia Srl (fondata nel 1963) e Besana Mobili (chiusa dopo 115 anni di attività), avvenute lo scorso anno. E questi sono solo gli ultimi fallimenti di una lunga serie che dal 2008 a oggi ha depauperato il settore, arrivando quasi a dimezzarlo per numero di imprese e di addetti. Una lenta emorragia che, se trascurata, rischia di generare gravi conseguenze.
Le motivazioni di questo declino sono molteplici e variegate, ma vale la pena analizzarle ad una ad una. Si possono anzitutto individuare tre cause estrinseche al settore: prima fra tutte, la contrazione di mercati come quello russo e mediorientale, che ha messo in ginocchio quella parte di filiera che produce mobili classici/moderni. In secondo luogo, l’assottigliamento della classe media italiana e la crisi della domanda interna, che ha invece colpito tutti quegli artigiani e quelle piccole industrie che producevano mobili di gamma media. Infine, una legge fallimentare scellerata (legge n. 80 del 14 maggio 2005), che permette di scaricare sui fornitori i propri debiti creando un effetto domino.
La causa principale è però la “crisi di identità” che sta attraversando l’imprenditoria brianzola e non solo. Il modello di azienda di tipo “padronale” e a conduzione famigliare non è più adatto ai tempi in cui viviamo. Se fino a trent’anni fa questo modo di concepire l’azienda poteva portare vantaggi, oggi porta solo problemi.
Come, ad esempio, una cronica mancanza di innovazione: le poche aziende che hanno puntato su automazione e Industria 4.0 hanno fatto balzi da gigante. Oppure un’organizzazione del lavoro antiquata, ancora di tipo fordista e non corrispondente al mercato odierno, che chiede prodotti sempre più personalizzati e su misura. Ad esempio, gli straordinari garantiti ai dipendenti come forma alternativa di aumento del salario accrescono il costo del lavoro e diminuiscono la produttività, impedendo un’organizzazione del lavoro più snella e agile, come invece vorrebbero le nuove modalità produttive.
Una scarsissima valorizzazione delle risorse umane e una ancora più scarsa considerazione delle relazioni sindacali come benefiche e costruttive, l’enorme difficoltà nel gestire i passaggi generazionali della proprietà e, infine, una lenta scomparsa dell’etica del lavoro sulla quale tanti imprenditori costruirono la propria fortuna sono solo alcuni dei problemi che attanagliano oggi la classe industriale.
Le vecchie ricette, che fino a ieri funzionavano benissimo, oggi non sono più attuabili. Se questa sfida non verrà colta e affrontata nel più breve tempo possibile, si rischia di rimanere ai margini del mondo (industriale e non) che verrà, perdendo di conseguenza leadership nel settore, capacità produttiva e posti di lavoro con conseguenti costi economici e sociali altissimi.
Come da tempo va ripetendo Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, è necessario un nuovo umanesimo industriale che si fondi su un patto per la fabbrica stretto tra le parti sociali, di cui l’accordo interconfederale tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria del 9 marzo 2018 è un buon esempio, e si irradi a tutto il settore manifatturiero italiano.