Archiviata la Legge di bilancio 2025 a colpi di voti di fiducia espressi dalle due Camere, attraverso percorsi parlamentari che in altri Paesi vengono giudicati come “stranezze della penisola” (ma forse anche da molti cittadini italiani non avvezzi all’italica storia sul funzionamento delle istituzioni), le vicende economiche e sociali si ripresentano puntuali, uguali a come sono state lasciate il 24 dicembre, ora che ci accingiamo a disfare i presepi e riporre luminarie e addobbi nelle scatole, con un po’ di nostalgia per questo tempo privilegiato e un po’ sospeso rispetto al resto dell’anno.
Se sul fronte economico attendiamo le necessarie circolari attuative circa alcune luci della manovra (dalle tasse ai benefit, dalle agevolazioni al riordino di taluni contributi, oltre alla novità dello stanziamento annuo di 72 milioni di euro per la legge sulla partecipazione dei lavoratori nelle imprese) e aspettiamo di capire come si inizieranno a dipanare le ombre della medesima, in particolare sul Sistema sanitario nazionale (forse la vera emergenza tra le emergenze), sul banco delle questioni sociali rimangono irrisolte, se non aggravate, talune vicende sindacali che da sole difficilmente si spiegano.
Eppure, le questioni sindacali altro non sono che spie di malesseri e di malfunzionamento di taluni processi sociali, prima fra tutte le diverse transizioni e trasformazioni del nostro apparato industriale, posizionato da sempre nelle parti alte delle classifiche dei diversi Paesi nel mondo e in Europa in particolare. Di fronte all’evoluzione manifatturiera (in primis dei diversi veicoli che si producono nel nostro Paese, ma non solo) appaiono incerte le azioni dei vari attori coinvolti: non parliamo solo del Governo centrale, ma anche delle parti sociali sindacali, sia centrali che dei diversi settori, oltre che delle istituzioni decentrate e dei grandi enti di sostegno, di promozione e di produzione della ricerca scientifica. Tutto il sistema-Paese è coinvolto e corresponsabile di fronte alle sfide che ci attendono nel 2025, comprese le banche, che appaiono preoccupate solamente del proprio contributo a risanare il debito pubblico.
Il problema non riguarda solo Stellantis, ma tutte le filiere collegate che coinvolgono decine di migliaia di addetti, molti dei quali non appartenenti al settore metalmeccanico: infatti, uno sguardo attento alla fotografia della realtà ci permette di scorgere grandi preoccupazioni in alcune catene dei prodotti e dei servizi che hanno origine in particolare nell’area chimica a monte e a valle. Parliamo di adesivi e vernici, di vetro e ceramiche, di prodotti tessili e manufatti di gomma, di applicazioni e supporti di plastica, parliamo anche di arredi, di gas tecnici e altre produzioni materiali quali i polistiroli, ad esempio, e non ultimi i cavi. Ovviamente le aree meccaniche, metallurgiche e ferrose sono pesantemente coinvolte, ma, come descritto, non sono solo esse a essere al centro delle questioni.
L’automotive è centrale, ma, seppur con dimensioni minori, potremmo parlare dell’elettrodomestico, gloria dell’italian style degli anni ’60 e ’70, dei prodotti collegati all’edilizia (con la fine del famoso Superbonus 110%), delle aree agroalimentari per l’incombenza di futuri dazi, oltre ai cambiamenti climatici che stanno mettendo a dura prova le stagionalità e le stesse coltivazioni, accanto alle incertezze delle politiche europee in perenne contrapposizione di interessi tra Paesi produttori e Paesi consumatori. Ovviamente nei diversi segmenti industriali operano anche le imprese di manutenzione di impianti e attrezzature per le produzioni, con specializzazioni in meccatronica ed elettrotecnica, oltre alle diverse software house, le aziende dei trasporti, della ristorazione aziendale, delle pulizie e igiene, l’elenco rischia di essere lunghissimo…
Le sfide industriali sono quindi complesse anche per le ripercussioni dirette e indirette, ed è per questo che occorre una visione di insieme e non particolaristica, orientata solo alla gestione emergenziale; è la nostra storia a insegnarcelo.
Occorre sostenere le imprese che sviluppano le innovazioni, che le applicano, che non stanno ferme in rendite di posizione che rischiano di franare con i cambiamenti incombenti (e con esse le persone che ci lavorano e collaborano a diverso titolo). Incentivi selettivi e mirati, con tempi certi in autorizzazioni ed erogazioni, al riparo da procedure lobbistiche o scarsamente trasparenti, con sistemi di valutazione decentrati (anche le innovazioni istituzionali sarebbero utili). La politica industriale è un fatto di sistema, è una costruzione correlata a un cantiere permanente, dove cooperano enti e istituzioni orientate a uno scopo economico-sociale e non di auto-mantenimento di sé stessi.
Ma occorre anche una rete di operatori specializzati e accreditati in materia di gestione delle transizioni industriali, attraverso la ricerca di partnership nei subentri dei siti, con imprese affidabili e da ricercare a livello internazionale (vedi la recente cessione degli asset di Piaggio Aerospace); e di conseguenza un sistema efficace di politiche attive del lavoro, capaci di innescare ricollocazioni occupazionali con riqualificazioni professionali.
Le parole e gli scritti non rendono bene la complessità di questi processi: solo chi li vive (o ci è passato personalmente) comprende le molteplici responsabilità a cui si è chiamati, la necessità di intraprendere percorsi virtuosi e sostenibili, ma soprattutto di esercitare la rappresentanza non solo come raccolta di domande, ma anche costruzione realistica di risposte adeguate e pertinenti.
In questo senso nel nostro Paese convivono diverse modalità e tradizioni sindacali, in capo alle diverse esperienze delle varie organizzazioni di rappresentanza: confederali, autonome (o di mestiere) e di base. Non è facile classificarle e distinguerle, anche per processi di unità di azione in cui confluiscono spesso insieme e talvolta in forme distinte, come nel caso dello sciopero generale proclamato da Cgil e Uil a fine novembre o gli scioperi dei trasporti che recentemente hanno paralizzato le città, proclamati dai sindacati di base e che mirano prevalentemente all’effetto annuncio, con conseguente incremento del traffico privato, anche se le modalità di astensione di poche persone in alcuni servizi essenziali alla circolazione bloccano interi servizi metropolitani e di superficie.
Non è sempre facile trovare gli equilibri tra i diversi interessi in gioco, a partire dal diritto di sciopero costituzionalmente garantito e temperato da alcune leggi di garanzia e salvaguardia sia dei cittadini che dei beni strumentali, quali ad esempio impianti e apparecchiature complesse; l’esperienza di diversi Paesi in Europa presenta similitudini con le nostre vicende, anche se talvolta (ad esempio in Francia) i conflitti sono molto più radicali e dannosi.
Tra le diverse sigle la Cisl appare quella maggiormente orientata alla salvaguardia dei diversi interessi in gioco, proponendosi come un interlocutore molto concreto e scevro da particolari collateralismi politico-parlamentari; fa della contrattazione la propria bussola orientativa e dell’autonomia ne è gelosa custode, pur non mancando anch’essa di limiti ed errori che, comunque, contraddistinguono tutte le organizzazioni che in qualche modo agiscono e si assumono le responsabilità di mediazioni sociali con decisioni spesso impopolari. E la sua storia pluriennale lo dimostra inequivocabilmente.
Il sistema-Paese ha bisogno di forze che agiscano per costruire processi inclusivi, con la paziente ricerca di punti di convergenza e non solo esasperazione del dissenso, con modalità collaborative e non solo antagonistiche e rivendicative; significa negare il conflitto o il diritto di sciopero? Manco per nulla! Significa usare gli strumenti di pressione e di mobilitazione quando serve, senza abusarne, senza finire nei vicoli ciechi che alimentano solo messaggi mediatici, ma non portano risultati: infatti, i bravi sindacalisti del passato insegnavano ai più giovani che occorre sempre proiettarsi al giorno dopo lo sciopero, per capire come proseguire, incamerando e riflettendo sul risultato ottenuto. E se non sono arrivati risultati allora qualcosa è stato sbagliato…
Qui la questione si fa ulteriormente complicata in quanto nella mentalità comune i sindacati sono quelli che fanno parlare i media quando ci sono gli scioperi; in realtà, i sindacati sono diversi, ma hanno strutture molto articolate. Infatti, le confederazioni hanno un ruolo di rappresentanza generale, mentre chi stipula i contratti collettivi sono le federazioni di categoria dei diversi settori produttivi e professionali. E generalmente, salvo qualche rara eccezione, i contratti si firmano abbastanza fisiologicamente, nei tempi e alle scadenze stabilite. Come detto, non sempre è così e infatti è fermo al palo il più grande contratto del settore industriale, quello metalmeccanico, che assomma oltre un milione di addetti in aree merceologiche sempre meno omogenee tra loro, mentre è alle battute conclusive il contratto dei trasporti pubblici locali (molto in ritardo rispetto alle normali scadenze) e anche un piccolo ma decisivo contratto come quello dei lavoratori somministrati, che, rispetto ai lavori flessibili e instabili che caratterizzano questa forma di contratto ha invece bisogno di grandi tutele da offrire a questo importante segmento del mercato del lavoro.
Se del caso (e di qualche interesse) nelle prossime settimane, ad anno nuovo iniziato per tutti, potremmo riprendere il tema ovvero come stanno le cose rispetto al rinnovo dei diversi contratti di lavoro che, solo per informazione a tutti, rappresentano per molte persone l’unica forma di tutela salariale e normativa. E infatti se non ci fossero i contratti collettivi in Italia avremmo solo una giungla retributiva! Provare per credere.
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