Sono stati diffusi i dati sul mercato del lavoro nel 2020 che godono di maggiore ufficialità, quelli pubblicati dal ministero del Lavoro, in collaborazione con Istat, Inps, Inail e Anpal, e che forniscono una lettura integrata dell’impatto di un evento eccezionale come la pandemia. I dati di fondo indicano un evento inusuale, comune a tutti i Paesi industrializzati, con un calo di occupati, ore lavorate e produzione che ha superato i tonfi delle due crisi finanziarie del 2008 e del 2012.
Il primo shock dei mesi di marzo-aprile 2020, con il duro lockdown applicato, è stato il più forte. La caduta di tutti gli indicatori del lavoro è drastica e contribuisce pesantemente a determinare i saldi finali. La ripresa dei mesi estivi è stata significativa, perché estesa anche al settore dei servizi, ma non è riuscita ad azzerare gli effetti della caduta precedente. Il ritorno alle chiusure fra novembre e dicembre ha poi ulteriormente contribuito ai saldi negativi.
Impressionante la curva degli andamenti delle comunicazioni di nuovi contratti. Gennaio e febbraio 2020 sono in linea con l’anno precedente e poi si scende a precipizio fino a -75% di nuovi contratti. La ripresa estiva copre una crescita del 50% e si assiste a un ulteriore incremento nel primo periodo di novembre, ma, con l’annuncio delle chiusure di dicembre, in due settimane, si torna al minimo di fine marzo.
Ovviamente, questo indicatore generale dei movimenti in corso sul mercato del lavoro ci dice che la mobilità (somma fra chi cambia lavoro e nuove assunzioni) si è bloccata. Il segno è negativo in tutti i settori, ma è leggermente negativo (saldo annuale) in industria e costruzioni. È fortemente negativo nei servizi, dove quelli legati alla mobilità turistica e lavorativa sono pressoché azzerati.
A pagare di più la crisi sono stati i contratti a termine e i lavoratori autonomi. La somma dei posti di lavoro persi da chi aveva queste posizioni lavorative supera le 600mila unità. In positivo entrano invece quasi 150mila contratti a tempo indeterminato.
Espulsi dal mercato sono soprattutto i lavoratori impiegati con posizioni contrattuali meno tutelate. Giovani, donne e immigrati perché impiegati con contratti a termine non rinnovati o perché impiegati in settori stagionali e nei servizi di accoglienza, sono le categorie che rifluiscono verso la disoccupazione. In realtà, la situazione è percepita come talmente negativa che i disoccupati diminuiscono e gli espulsi del lavoro si ritirano dal mercato ingrossando le fila degli inattivi.
A contribuire a questi risultati è stata anche la decisione di applicare in modo esteso le tutele della cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti. Tali misure, che accompagneranno almeno fino all’estate la nostra economia, coprono solo alcune categorie di lavoratori e aprono perciò il tema di nuovi ammortizzatori sociali in grado di assicurare servizi di tutela realmente universali.
Le analisi fornite dalle elaborazioni del ministero e i dati dei primi mesi del 2021 ci indicano però alcune ipotesi per i prossimi 12 mesi. La campagna vaccinale fa intravedere la possibilità di un secondo semestre 2021 di ripresa generale dell’economia, dai commerci internazionali a una prima ripresa di turismo e mobilità per ragioni lavorative. Le previsioni Ocse indicano in un +4,6% la crescita del Pil per il 2021 e in un +3% per il 2022. Gli effetti del Recovery plan dovrebbero permettere di avere, soprattutto a partire dal prossimo anno, risultati migliorativi sulle previsioni attuali. Questi numeri permetteranno un avvio degli assorbimenti dei disoccupati e degli inattivi determinati dalla crisi.
In tale contesto è essenziale che si usino questi mesi per montare un sistema di politiche attive del lavoro che sappiano rispondere con efficacia alla particolare selettività con cui ha agito la crisi e con cui agirà anche la ripresa. Centrale sarà la capacità di mobilitare percorsi di formazione in grado di rispondere alla domanda di nuove competenze che arriveranno da tutti i settori.
Già oggi il mismatching fra esigenze poste dalla domanda di lavoro dei settori economici e competenze dell’offerta di lavoro si valuta che lasci senza copertura, o con copertura inadeguata, quasi un milione di posti di lavoro. La ripresa, come sottolineato da più parti, vedrà forti investimenti nella digitalizzazione che interesseranno trasversalmente tutti i settori sia della produzione industriale che dei servizi. Vi saranno poi gli impatti portati dagli investimenti legati alla transizione ambientale. L’applicazione dei principi dell’economia circolare impatteranno anch’essi sui sistemi produttivi, oltre che dare vita a nuove produzioni.
Per far sì che questi cambiamenti previsti diventino un’opportunità per l’occupazione e non un ampliamento del mismatching esistente, servono grandi investimenti in formazione. Dovrà esserci un’offerta che interessi lavoratori già occupati, sia che rimangano in azienda, sia che, finita la tutela della Cig attuale, debbano trovare una nuova occupazione.
La stessa attenzione va rivolta a quanti si stanno formando per entrare nel mercato del lavoro e quanti si sono ritirati, siano essi disoccupati o inattivi. Il nostro sistema formativo per troppi anni è servito ad assicurare lavoro ai formatori più che agli studenti.
Il cambio di passo che dobbiamo fare in tempi rapidi è notevole e richiede che siano attivati tutti i canali pubblici, privati e dei fondi interprofessionali. Serve un sistema di formazione delle competenze capace di assicurare i passaggi da lavoro a lavoro, preparare le nuove professionalità e dare vita a un sistema di formazione professionale che mandi nel dimenticatoio il vecchio sistema utile solo ai formatori.