Il Paese, o come preferisce il presidente del Consiglio in carica la Nazione, ripartirà e uscirà dalla crisi, economica, sociale e sanitaria, solo se, o quando, lo farà anche il nostro Mezzogiorno. Da questa considerazione parte l’analisi, ma potremmo dire la “mission” stessa, dello Svimez, che ha pubblicato, nei giorni scorsi, il suo rapporto annuale sull’economia meridionale.



Lo studio parte dal presupposto che il 2022, che secondo le premesse avrebbe dovuto caratterizzarsi per una crescita sostenuta, è stato, ahimè, un anno di frenata a livello internazionale. L’evoluzione della crisi energetica, direttamente legata alla guerra “europea” in corso, aggiungendosi ad altri fattori di incertezza più o meno strutturali, ha reso, quindi, più incerte anche le prospettive del 2023 per l’area euro e l’Italia. Il “trauma” della guerra ha, infatti, cambiato il segno delle dinamiche in corso a livello internazionale provocando, più o meno direttamente, il rallentamento della ripresa, l’aumento del costo dell’energia e delle materie prime, la comparsa di nuove emergenze sociali e, ovviamente, nuovi rischi per le imprese.



Tali condizioni avverse hanno esposto così, già nel 2022, l’economia italiana a nuove turbolenze, allontanandola dal sentiero di una ripartenza relativamente sostenuta e coesa tra i diversi territori e si immagina che lo stesso possa purtroppo accadere nell’anno che verrà.

Si pensi, in questa prospettiva, agli effetti recessivi che derivano dall’anomalo incremento dei prezzi dei beni energetici, gas in primis, che stanno dando luogo a impatti per famiglie e imprese fortemente asimmetrici a livello territoriale, penalizzando soprattutto le regioni meridionali.

Gli aumenti dei prezzi riguardano, infatti, in maniera significativa, tipologie di spesa difficilmente comprimibili, che pesano solitamente di più sulle famiglie a basso reddito, traducendosi quasi meccanicamente in un’asimmetria territoriale sfavorevole al Sud, dov’è, storicamente, relativamente più diffusa la presenza di famiglie meno abbienti.



Tutto questo accade, difatti, in un contesto in cui, è bene ricordare, se le retribuzioni lorde unitarie in Italia sono cresciute in termini nominali tra il 2008 e il 2021 di poco meno di 9 punti percentuali rispetto agli oltre 27 della media europea, le stesse si sono ridotte, in termini reali, nel Mezzogiorno di 9,4 punti percentuali contro i 2,5 in media nel Centro-Nord. Nella stessa logica si deve così registrare che se i cosiddetti “working poor” in Italia sono il 13% degli occupati questo dato nel nostro Mezzogiorno si avvicina al 20% contro il circa 9% del Centro-Nord.

Su queste questioni si misurerà, insomma, la capacità, già nelle prossime settimane, del Governo dei Patrioti di dare risposte serie alle istanze di lavoro, e investimenti, provenienti da un Mezzogiorno che non è, pur tra le mille difficoltà quotidiane e storiche, la Patria, descritta a volte con toni un po’ caricaturali, solamente dei falsi invalidi e degli, altrettanto truffaldini, beneficiari del Reddito di cittadinanza.

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