Dopo la crisi finanziaria degli ultimi anni, lo scenario macroeconomico è stato caratterizzato da un contesto di graduale ripresa economica sia a livello mondiale che a livello europeo e nazionale. Tale ripresa non è stata accompagnata da una crescita dell’occupazione altrettanto robusta. Il tasso di creazione dei posti di lavoro è stato ben al di sotto della media precedente la crisi (si è spesso utilizzata la frase: crescita senza occupazione) lasciando presagire l’esistenza di cambiamenti strutturali nella relazione tra sistema della produzione e occupazione. Ma la situazione generale si potrebbe ulteriormente complicare se troveranno conferma le voci sempre più forti degli ultimi giorni che prevedono l’arrivo di un’ulteriore fase di recessione internazionale.



Non è chiaro quali strade si potranno percorrere affinché l’attuale sistema socio-economico esca definitivamente dalla fase di crisi in cui si trova. Nello stesso tempo è certo che uno dei punti decisivi per una ripresa o per un’ulteriore caduta riguarderà il tema del lavoro. Il tasso di occupazione in Italia (che identifica la popolazione che partecipa attivamente al mercato del lavoro) è sostanzialmente fermo: al 2008 era pari al 58,6%, nel 2018 è al 58,5%. Parallelamente la disoccupazione oscilla ormai da molto tempo intorno al 10% e si attesta su livelli drammatici per ciò che riguarda i giovani (circa il 30%). Anche i dati tendenziali più recenti – giugno 2019 su giugno 2018 – mostrano un sostanziale stallo occupazionale (valori sostanzialmente identici). Questo significa che la curva dell’occupazione, che aveva ripreso a salire dopo il calo del secondo semestre 2018, si è nuovamente fermata.



Anche la ripartizione tra contratti a termine e a tempo indeterminato sembra ormai assestata in un intorno del 15%, nel nostro Paese, così come nel resto d’Europa, a testimonianza del fatto che le imprese necessitano ormai stabilmente di una quota di flessibilità occupazionale. È importante in questo senso ricordare che la flessibilizzazione occupazionale delle imprese, osservata dal punto di vista dei lavoratori, corrisponde a una propensione alla mobilità sempre più evidente. Nel XVIII Rapporto annuale Inps emerge con chiarezza estrema che il tasso di sopravvivenza di un contratto “a tempo indeterminato” a 36 mesi dalla sua stipula è pari a circa il 41%.



È indubbiamente sempre più difficile parlare di posto fisso che dura una vita e, nello stesso tempo, vale la pena chiedersi se hanno senso le politiche di incentivazione all’assunzione a tempo indeterminato. Come ricordato più volte, anche su queste pagine, negli ultimi 15 anni le politiche attuate, pur avendo dato qualche contributo positivo, non hanno portato risposte significative allo sviluppo e crescita di un mercato del lavoro che sta vivendo cambiamenti strutturali rilevanti.

Questi cambiamenti si possono in sintesi riassumere in tre fattori. Il primo è costituito dall’invecchiamento della popolazione che da una parte costituisce un vero e proprio “tappo” all’ingresso del mercato del lavoro dei più giovani con conseguenze negative sul tasso di disoccupazione giovanile e dall’altra fa sì che le competenze dei lavoratori anziani non siano più adeguate al rapido cambiamento del tessuto economico (un problema noto come “obsolescenza delle competenze”).

Il secondo fattore è legato al processo di globalizzazione e al cambiamento che esso ha introdotto nella struttura produttiva. L’affidamento all’esterno di alcuni processi aziendali (outsourcing) e/o la delocalizzazione di alcuni processi produttivi (offshoring) ha modificato profondamente la struttura della produzione determinando un aumento della domanda relativa di lavoratori di “basse competenze” nei paesi in via di sviluppo e un complementare aumento della domanda relativa di lavoratori con “alte competenze” nelle economie avanzate.

Il terzo fattore, probabilmente il più rilevante, è costituito dal progresso tecnologico. Il rapido sviluppo delle tecnologie e l’utilizzo massiccio dell’informatica nel processo produttivo hanno radicalmente mutato le competenze richieste ai lavoratori. Le nuove tecnologie consentono l’automazione di un crescente numero di attività che precedentemente venivano svolte dalle persone. Inizialmente questi meccanismi di automazione si sono concentrati su attività routinarie, sia di carattere manuale (assemblaggio, logistica, ecc.) che non (attività amministrative, attività paralegali, attività di reportistica, ecc.). Tuttavia, l’avvento dei big data, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e dell’internet delle cose (IoT) ha reso sempre più concreta la possibilità che possano essere automatizzate anche attività che sembravano troppo complesse per una macchina (si pensi, ad esempio, allo sviluppo della guida autonoma).

Questi cambiamenti sono e saranno determinanti nell’identificare e definire quale sarà lo scenario del mercato del lavoro e i mestieri del futuro. Uno dei pilastri fondamentali riguarderà (e già riguarda) le competenze e conoscenze richieste e le capacità e/o possibilità di farle evolvere nel tempo. Le competenze influenzeranno non solo gli specifici mestieri, con la richiesta di acquisire e possedere competenze sempre più specialistiche per svolgere i vecchi e i nuovi mestieri (per esempio, competenze digitali). Ma inevitabilmente, anche la stessa organizzazione interna del lavoro delle imprese sarà chiamata a cambiare, privilegiando sempre più competenze trasversali e generali, quali ad esempio la capacità di risolvere i problemi, la capacità comunicativa, la capacità di lavorare in autonomia, la capacità creativa, ecc.

È evidente che il futuro del lavoro si gioca sullo sviluppo del capitale umano e per questo il punto centrale di un buon investimento per il futuro del lavoro si chiama educazione. L’integrazione reale di politiche dell’istruzione, della formazione professionale, di welfare (sostegno economico soprattutto nelle fasi di passaggio) di sostegno alla occupabilità, di sviluppo d’impresa costituiscono le basi per la costruzione di nuovi scenari a supporto della reale crescita del Paese. Oggi siamo di fronte a una parcellizzazione di interventi (spesso in ritardo) di tamponamento e di breve termine, mentre serve una visione di più ampio respiro che sappia traghettarci verso lo sviluppo di un mercato del lavoro inclusivo, cioè capace di valorizzare il capitale umano.