Secondo le Nazioni Unite, i disastri causati dalla crisi climatica, il cosiddetto “climate change”, si verificano, considerando la dimensione planetare nel suo complesso, al ritmo di uno alla settimana, ma la maggior parte attira poca attenzione internazionale e mediatica. Catastrofi come i cicloni Idai e Kenneth in Mozambico e la siccità che affligge l’India fanno, altresì, notizia in tutto il mondo, ma ancora troppe sono le tragedie che, si denuncia, rimangono nell’ombra. Esiste, infatti, un numero elevato di eventi a impatto, fortunatamente, inferiore che causano, comunque, morte, sfollamenti e sofferenze molto più rapidamente del previsto.



È, insomma, sempre più convinzione diffusa nelle opinioni pubbliche che l’adattamento alla crisi climatica non possa più essere visto solamente come un problema a lungo termine, ma che abbia bisogno di scelte e investimenti precisi già ora. Basta guardare, nel nostro piccolo, a quanto sta succedendo, o è successo in Italia. Il Bel, ma molto fragile, Paese è in una surreale situazione di emergenza continua. Il Po, particolarmente alto, sta ad esempio tenendo “in ostaggio” buona parte dell’Emilia come ha fatto, solo pochi giorni fa, l’Arno con Pisa e Firenze.



Particolarmente simbolica è certamente la vicenda di Venezia e il Mose un progetto, sempre in fase di completamento, la cui realizzazione è finalizzata alla difesa della città di Venezia e della sua laguna dai pericoli associati al fenomeno delle acque alte. La stesura del primo progetto preliminare di massima delle opere mobili risale, è bene sottolinearlo, al lontano 1989 ed è stato ultimato nel 1992. Nel 2002 venne presentato il progetto definitivo, e ricevette il via alla sua realizzazione nell’anno successivo. vennero aperti i cantieri alle tre bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia. Dopo quasi vent’anni ancora la struttura non è operativa e le sempre più frequenti, e anomale, acque alte continuano a fare i loro danni alle persone e alla città.



A livello globale le stime pongono il costo delle catastrofi legate al clima a 520 miliardi di dollari all’anno, mentre i costi aggiuntivi per la costruzione di infrastrutture resistenti agli effetti del riscaldamento globale sono solo del 3% circa, ovvero 2,7 miliardi di dollari in totale nei prossimi 20 anni.

Come si pone, in questo contesto globale, il nostro Paese, la politica e, in particolare, il Governo che ha immaginato la plastic tax? Non sarebbe, forse, l’ora di (ri)pensare un serio piano di investimenti per “aggiornare” il nostro sistema infrastrutturale in maniera “green” ed evitare, per quanto possibile, le tragedie che siamo, ormai, periodicamente abituati a seguire.

Il Paese, e in particolare l’ambiente in cui viviamo, ringrazierebbe, tra le altre cose, per le, prevedibili, ricadute occupazionali, magari di qualità, per i tanti (troppi) attualmente esclusi dal mercato del lavoro anche a causa di una globalizzazione che ha distrutto posti di lavoro non più sostenibili dal punto di vista ecologico.