L’Italia che esce dal Rapporto annuale Istat è un Paese a macchia di leopardo. L’analisi presentata punta ad analizzare fenomeni di medio-lungo periodo e, quindi, su fenomeni diversi cerca di chiarire l’impatto che hanno avuto sulla realtà complessiva.
Vediamo intanto le dinamiche negative. Dopo l’emergenza sanitaria, gli effetti del ritorno della guerra sul suolo europeo hanno innescato una spirale inflazionistica che sta frenando la crescita economica. Il primo effetto combinato delle due crisi è un aumento delle diseguaglianze. Nel corso di questi anni sono cresciute le differenze di reddito e anche le opportunità di crescita sociale hanno subito un arretramento.
Al cuore delle possibilità di inversione di tendenza sta la questione dei giovani. Questo non è da decenni un Paese che facilita il rapporto tra giovani e mercato del lavoro. È dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso che si susseguono leggi per introdurre facilitazioni per l’inserimento dei giovani al lavoro. Contributi economici per agevolare le assunzioni si sono alternati con l’introduzione di forme contrattuali dedicate. Oggi la situazione si fa ancora più complicata dato l’impatto della caduta demografica che vi è stata negli anni passati e che sta continuando.
Già si vedono i due effetti in azione. Sono pochi i giovani che arrivano sul mercato del lavoro rispetto a quanti stanno uscendo e, inoltre, si accentua il mismatching fra competenze acquisite nel percorso scolastico e formativo ed esigenze del sistema produttivo. A fronte di un mercato del lavoro che sta registrando un andamento positivo. A maggio 2023 gli occupati in Italia sono 23 milioni e 471 mila. Un numero superiore al massimo storico toccato nel 2008, prima della Grande recessione. La composizione della popolazione è però drasticamente cambiata con un aumento di persone anziane (anche ultracentenarie) e la popolazione in età lavorativa a quota 37 milioni e 339 mila unità. Le proiezioni a 15/20 anni danno una situazione inedita per il rapporto fra popolazione attiva e anziani fuori dal mercato del lavoro. Sistema pensionistico, sanitario e socio-assistenziale saranno da ripensare a fondo.
Anche il fenomeno demografico mostra inoltre il crescere di divari territoriali. La popolazione, e anche le nuove nascite, sono più alte nelle città che nelle aree interne. Al Sud il fenomeno ha entrambe le facce di un calo generalizzato, per la ripresa di un’emigrazione interna quando non direttamente all’estero, e più accentuato che nelle altre aree fra territori interni e centri cittadini. Le differenze territoriali in termini di dotazione di servizi pesa su queste scelte e nel determinare una nuova fonte di povertà delle opportunità.
Dobbiamo perciò puntare sui giovani, rimettere in moto la scala sociale e correggere le differenze emerse in questo periodo. Il tema, come messo in rilievo dal Rapporto Istat, coinvolge molte tematiche. Circa il 50% dei giovani fra i 18 e i 34 anni mostra almeno un segnale di deprivazione. Si intende con questo che sui temi chiave che concorrono a definire il benessere personale (istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo, territorio), la metà dei giovani vive una situazione dove ha opportunità molto minori rispetto ai suoi coetanei. Il 15% dello stesso panel giovanile ha almeno due punti di debolezza.
Molta rilevanza ha il percorso a ostacoli che i giovani passano prima di arrivare a una stabilità e autonomia economica, infatti le situazioni più critiche si trovano dopo i 24 anni. Pesa però anche il deficit che il Paese ha nelle dotazioni di servizi a supporto della natalità e per i più giovani, nidi e scuole di infanzia come ben messo in luce dalle previsioni del Pnrr. Il risultato è che le nuove generazioni italiane hanno probabilità più alte di ereditare la povertà dei padri invece di avere di migliorare la loro situazione.
Si conferma, però, che lo studio contribuisce ancora in modo determinante a segnare le differenze per incrementare la partecipazione al mercato del lavoro e ridurre anche i divari di genere. Chi arriva a un livello terziario di formazione ha un tasso di occupazione molto più alto dei giovani con solo il diploma e una speranza di crescita di reddito molto più alta. Per le donne la differenza è ancora più accentuata e risulta ancora maggiore per le zone dove il disagio lavorativo è più alto.
Per individuare il percorso di crescita futuro va però analizzato anche l’incontro fra domanda e offerta. I dati ci dicono che l’investimento in formazione è in crescita fra i giovani. Non è ai livelli europei, ma ci si sta avvicinando. Anche gli appelli per aumentare quanti si formano in materie economiche, matematiche e scientifiche stanno ottenendo risultati. Così come molte imprese denunciano di non trovare le competenze necessarie, molti giovani non trovano adeguati sbocchi lavorativi.
Il sistema produttivo italiano, come messo bene in rilievo dal Rapporto, ha permesso al nostro Pil di crescere più di quanto hanno fatto i Paesi a noi più simili in Europa. La catena di imprese collegata alle reti multinazionali ha avuto un trend positivo, ha investito in innovazione e ha trainato le esportazioni, oltre a rispondere a una buona tenuta della domanda interna. La parte di industria manifatturiera e di servizi già in linea con l’innovazione del digitale e con l’economia circolare è ancora troppo limitata. I ritardi della Pa e la rete di micro e piccole imprese segnano forti ritardi nell’introduzione delle innovazioni tecnologiche e nella crescita della produttività.
Il tasso di espatrio dei giovani laureati nel 2021 è stato del 9,5 per mille per i maschi e del 6,7 per mille per le donne. L’emigrazione interna è tutta proiettata verso le regioni del Nord. Non sono in sé fenomeni negativi. La crescita del capitale umano passa anche per le esperienze in altri Paesi. La sfida per essere vista in modo equo è quella di diventare anche noi un éaese che non attira dall’estero giovani solo nella fase di studio nelle nostre eccellenze universitarie, ma diventare un sistema produttivo capace di essere competenti o nell’attrarre le migliori competenze lavorative. Avremmo ottenuto così quel Paese a misura di giovani che il Rapporto Istat auspica sia l’obiettivo delle classi dirigenti nei prossimi anni.
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