Cosa accadrà dopo il 3 aprile? La data che ormai tutti gli italiani attendono al pari di un ragazzino che aspetta il Natale cerchiando in rosso i giorni sul calendario dell’Avvento, pone un interrogativo importante: “E dopo?”. E ancora, cosa succederà poi nella possibilità, non così remota, che sarà necessario optare per un’ulteriore proroga di questa data?
Il mio pensiero va inevitabilmente ai datori di lavoro e ai loro collaboratori che si trovano ad affrontare non poche difficoltà nella gestione degli spazi lavorativi in queste settimane. Ambienti di lavoro che sono stati obbligatoriamente stravolti e riorganizzati, che sono diventati oggetto di numerose discussioni, articoli e interviste. Alcune realtà si sono mosse tempestivamente e hanno trovato rapidamente soluzioni efficaci per minimizzare i problemi di continuità del lavoro.
Se da un lato, per coloro che lavorano negli uffici, tutto ciò nel 2020 è ormai scontato o comunque di facile attuazione, diversamente accade per chi opera in fabbrica o in altri ambienti (pensiamo agli autotrasportatori, ad esempio), per cui una riorganizzazione del modello standard di lavoro è qualcosa che non ci si inventa, che richiede tempo e numerose fasi per la sua efficace attuazione.
Un plauso va a quelle realtà che sono state in grado di trovare soluzioni senza necessariamente pesare sui dipendenti. Già, perché il cosiddetto smart working esige un costo per chi lavora (si pensi, ad esempio, ai consumi di luce, ai pasti). Così come costa un congedo parentale (in termini di riduzione di stipendio) e non da ultimo costa utilizzare le proprie ferie in un momento in cui non si può viaggiare, non si può staccare fisicamente e mentalmente.
Dal 12 marzo, per almeno due settimane, la maggior parte delle attività hanno chiuso i battenti e il resto si sta riorganizzando in modo da limitare il più possibile altri eventuali contagi, fino ad arrivare, come già detto, al 3 aprile, ovvero data in cui tutti (se ci impegnamo) dovremmo poter respirare un po’ di più.
Tuttavia, è difficile che la vita quotidiana tornerà come prima. È difficile che, finalmente usciti di casa, riprenderemo a fare le cose allo stesso modo di quando il coronavirus non sapevamo nemmeno esistesse. Un po’ per paura e un po’ per consapevolezza acquisita certamente i nostri stili di vita cambieranno.
E le aziende? Sapranno garantire ai collaboratori una sicurezza in tal senso? Saranno in grado di gestire un’eventuale emergenza quando le acque si saranno calmate? È qualcosa che si dovrà certamente affrontare, o meglio, che si deve valutare da subito in modo tale da poter far rientrare i collaboratori all’interno del luogo di lavoro con regole chiare e procedure d’emergenza. Immaginiamo, ad esempio, cosa potrebbe succedere al primo colpo di tosse del proprio vicino di scrivania.
Il recente protocollo d’intesa tra Governo e sindacati è un buon inizio, ma non mi convince. Non convince perchè tappa i buchi delle ultime settimane, copre le mancate risposte chieste (in particolare) dall’industria italiana, ma sembra non essere sufficiente a garantire una stabilità nel tempo. Come far sì che si intervenga in modo decisivo e durevole nelle nostre vite professionali? Nelle nostre fabbriche, nelle botteghe, negli uffici o nelle scuole? Come davvero si pensa di far fronte a un così grave imprevisto che difficilmente potremo lasciarci alle spalle in pochi giorni?
Solo il tempo ci dirà se il nuovo decreto “cura Italia”, recentemente emanato, potrà supportare economicamente, in modo adeguato, chi è coinvolto direttamente dai disagi creati da questa situazione inedita, e la sua efficacia dipenderà solamente dal fatto se sarà in grado di essere uno strumento costantemente revisionabile e riadattabile alle esigenze del popolo italiano.
Parallelamente sono assolutamente certo che dovrà avvenire una rivoluzione sociale: il popolo stesso (non solo quello italiano) imparerà ad adattarsi, a (con)vivere, a viaggiare, lavorare in un modo nuovo, ad affinare capacità relazionali differenti da quelle a cui si era radicato fino a oggi.
Occorrerà, perciò, che queste misure (di governatori e di popolo) diventino misure di normalità. Ciò che è straordinario dovrà diventare ordinario. Nelle nostre aziende e nelle nostre vite. E solo allora finalmente potremo dire: ce l’abbiamo fatta, è andato tutto bene.