Siamo fermi. Siamo prevalentemente chiusi in casa. L’Italia ha fermato tutte le attività produttive a esclusione di quelle considerate indispensabili. Ma quando l’emergenza finirà che ne sarà del lavoro che abbiamo lasciato fuori dalle nostre case?
Se da un lato bisogna rispondere alle infinite emergenze di questi giorni come sta facendo il Governo con le molteplici task force ma anche le parti sociali e in particolare il sindacato confederale, che ha risposto all’esigenza di salvaguardare la salute dei lavoratori con numerosi accordi, dall’altro bisogna pensare al dopo. È infatti altrettanto urgente ricominciare a studiare, definire le proposte e le strategie per come ripartire, cosa fare per rilanciare l’economia italiana e ripensare all’intero sistema sociale per evitare che questa crisi, tanto tremenda quanto inaspettata, non consenta alle nostre aziende manifatturiere di ripartire con tutti i risvolti che ci sarebbero verso le classi più deboli.
Molti i commenti di questi giorni legati alla sofferenza delle persone. Se da un lato rimanere a casa è sicuramente un’opportunità non solo di non perdere il lavoro è pur vero che per molti lo smart working si sta rivelando una “prova di evacuazione” piuttosto che una reale opportunità. È altresì evidente che se il nostro Paese avesse implementato, in tempi ordinari, la banda larga e ultra larga, oggi milioni di persone riuscirebbero a lavorare sicuramente meglio al di là dell’organizzazione del lavoro che se da un lato ha trovato pronte molte aziende, tantissime altre non lo erano affatto. In questo contesto complicato, quello che in realtà si sta riscoprendo è la centralità del lavoro.
L’uscire di casa per oltre 23 milioni di persone voleva dire andare a lavorare. La socialità che manca in gran parte è legata agli ambienti di lavoro, il ritmo della vita quotidiana è spesso dato dal lavoro. Il dibattito sulla definizione/limitazione delle attività indispensabili è naturalmente imperniato sul lavoro. Anzi, leggendo l’elenco dei codici Ateco, si ri-scoprono lavori considerati umili, ma che in questo periodo di crisi sono diventati indispensabili. I lavoratori dei supermercati, i lavoratori agricoli, i lavoratori stagionali, delle pulizie, dell’igiene urbana, gli assistenti domiciliari, alcuni negozianti, della logistica e dei trasporti, ecc.
Molti dei servizi della Pubblica amministrazione, così come dei privati, avrebbero potuto essere fruibili dagli utenti con modalità telematica, senza cioè doversi spostare di persona utilizzando le potenzialità offerte dalla tecnologia. Scopriamo oggi che poco è stato fatto. Scopriamo, in pieno stato emergenziale, che il nostro Paese vive da questo punto di vista un ritardo culturale dovuto a un approccio conservativo del lavoro che manca di visione.
Il lavoro, non è pensato, per quello che dovrebbe essere e per le potenzialità che può esprimere al giorno d’oggi. Manca un moderno e positivo pensiero collettivo di cosa rappresenta oggi il lavoro per la società e le persone, ancora troppo spesso si tende a rappresentarlo tra una contrapposizione massimalista e un paternalismo familistico. Fortunatamente non mancano i casi di imprese che gestiscono in maniera moderna il lavoro e le relazioni industriali, ma non fanno scuola e troppo spesso si preferisce o ci si rifugia nel vecchio schema dei ruoli contrapposti, scaricando alla controparte le colpe.
Terminata quest’esperienza emergenziale, dopo esserci lasciati alle spalle il coronavirus, riuscirà il management delle imprese ad assumersi quelle responsabilità di delega, di lavoro per obiettivi, superando i vecchi approcci legati al mero controllo dei lavoratori? Si riuscirà finalmente a organizzare il vero smart working che non è il “telelavoro” di questi giorni, oppure quello che si fa solo al venerdì riuscendo così da ottimizzare anche la mobilità pubblica e privata, riducendo lo stress del traffico delle auto, dei treni dei pendolari e quindi anche l’inquinamento?
Il lavoro è strettamente legato alla dignità della persona e anche alla sua libertà consentendo alla persona di fare cose che non sarebbe possibile fare senza alcun reddito. I cosiddetti lavori “umili”, sono diventati indispensabili, oltre che essere a volte anche pericolosi (basti pensare agli addetti alle pulizie in ospedale, alle badanti), riusciranno ad acquisire quella valenza sociale necessaria affinché non si parli più di massimo ribasso negli appalti e/o subappalti a cominciare proprio dal pubblico? Dopo quest’esperienza, si riuscirà a dare maggiore valore agli aspetti retributivi di coloro che operano in questi settori?
Il lavoro per moltissimi lavoratori è anche “permesso di soggiorno”, basti pensare ai molti lavoratori stagionali dell’agricoltura e del turismo, oggi parcheggiati in qualche baraccopoli con la speranza che non diventino altri pericolosi focolai di questa pandemia. Sapremo in futuro, ricordarci quanto certi mestieri siano indispensabili anche in una società dove regna il benessere? Passato tutto quello che stiamo vivendo, ci ricorderemo di queste realtà?
Alla fine di tutto quello che stiamo vivendo, ci sarà la voglia, la capacità delle imprese di strutturarsi in modo diverso? Di consolidare il ruolo e il coinvolgimento dei lavoratori? Di ridurre lo spezzettamento in micro imprese, come avviene da anni nei cantieri e ormai anche all’interno delle singole imprese?
Riscopriamo oggi la centralità del lavoro manifatturiero, della fabbrica, perché ci si rende conto che fermando la produzione industriale il rischio è di non recuperare le quote di mercato perse, di non essere più quella potenza industriale che ci permette di essere tra i più ricchi Paesi al mondo. Superata questa fase critica per la salute e la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori, passata l’emergenza, saremo in grado di mantenere la stessa attenzione verso i lavoratori che certamente dovranno essere riqualificati? Vorranno le imprese manifatturiere e le filiere produttive che hanno resistito alla crisi, investire sulle nuove tecnologie e fare operazioni di reshoring per consolidarsi?
Il lavoro, il poter lavorare, aprire bottega, è diventato essenziale in tutte le città e in tutti i Paesi, specialmente i più piccoli, perché scopriamo che c’è una microeconomia che dà lavoro e ragioni di vita a milioni di persone. Saremo in grado come Paese di porre con continuità la dovuta attenzione alle dinamiche dello sviluppo locale, alla diffusione di buon lavoro sui territori?
La questione su cui si dovrebbe attentamente riflettere fin da ora non dovrebbe essere come ne usciremo, ma quale priorità daremo al lavoro finita l’emergenza. Le imprese, il sindacato, le istituzioni, avranno la capacità di riflettere sulla nuova centralità del lavoro? Saranno in grado di far memoria di quanto è stato centrale il lavoro durante la crisi e quindi di valorizzare il lavoro dopo l’emergenza? Si riuscirà concretamente a favorire un legame forte con il lavoro e con i lavoratori?
Se il valore del lavoro, del lavoro di qualità, del lavoro dignitoso, diverrà il parametro delle scelte future, tutte le altre priorità verranno di seguito, dall’ambiente alla digitalizzazione.
Molte delle esperienze fatte in questo periodo, pur se obbligate, hanno dimostrato aspetti positivi, anche rispetto alla sostenibilità ambientale. Dobbiamo far sì però che non vengano vissute solo come emergenziali, ma acquisire le conoscenze affinché il sistema diventi sostenibile anche rispetto ad altri problemi che viviamo e potremmo vivere in futuro: la sostenibilità deve diventare un parametro ordinario delle nostre scelte non un elemento da considerarsi solo in emergenza.
Non possiamo continuare con le vecchie ricette, occorre fare un salto in avanti, buttare il cuore oltre l’ostacolo, accelerare verso le scelte che finora sono state tenute in stand by o nelle ultime righe delle agende politiche. La lotta ai cambiamenti climatici, le scelte verso una vera sostenibilità ambientale e sociale dei processi produttivi, un percorso accelerato di riforme legate alla Just Transition.
“Nessuno si salva da solo”, ha ricordato il Santo Padre. Si dovrà pertanto prevedere un percorso globale, per tutto il pianeta, senza limitarsi ai confini nazionali: il virus ha dimostrato che non hanno più senso. Per questo sarà fondamentale definire una strategia sinergica e precisa, in una situazione geopolitica in veloce cambiamento.
Una frase di Aldo Moro che si legge in questi giorni sui social, a mo’ di empowerment collettivo, recita: “Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato di vivere con tutte le sue difficoltà”.
Non si può scendere da questo mondo, bensì bisogna viverlo per quello che è ed affrontare le questioni nel miglior modo possibile. Per farlo, ci si può preparare per migliorarci e migliorare “il tempo che ci è dato di vivere”.
“Oggi è la nostra responsabilità”, quella dei singoli ma in modo particolare quella delle organizzazioni pubbliche e private, dei corpi intermedi, della Pubblica amministrazione. Assumere la responsabilità di mettere al centro il valore del lavoro, significherà rendere la nostra società più equa e più resiliente per il futuro.