Nell’ambito dei Paesi sviluppati è in corso una mobilitazione di risorse pubbliche senza precedenti finalizzata a contrastare gli effetti recessivi di un’emergenza sanitaria che sta generando un analogo effetto pandemico sulle attività produttive, l’occupazione e sulla rete dei finanziamenti all’economia globale. Dall’efficacia di queste misure, oltre che dal successo di quelle messe in campo per contrastare la diffusione del coronavirus, dipenderanno l’intensità e i tempi della ripresa economica.



Augurandoci che tutti questi tentativi producano il risultato di far riprendere l’economia globale nella parte finale del 2020, ogni comunità nazionale è chiamata a fare quanto necessario per salvaguardare le strutture produttive e l’occupazione, a contenere gli inevitabili costi sociali e a delineare gli interventi che possono consentire di agganciare rapidamente la ripresa.



Nel breve termine in Italia, come in altri Paesi, questi interventi vengono adottati per sostenere, con il concorso di ingenti risorse pubbliche, gli indebitamenti delle imprese, la continuità dei rapporti di lavoro e il sostegno al reddito dei lavoratori, la tenuta del sistema finanziario. Ma attenzione a considerare tutto questo come una sorta di pit stop dell’economia, immaginando che la mera salvaguardia del tessuto produttivo possa consentire di far ripartire la produzione e il mercato del lavoro alle condizioni precedenti. Tutto questo non avverrà spontaneamente. Il ruolo della spesa pubblica può essere fondamentale per contenere gli effetti della perdita del reddito delle famiglie e dell’indebitamento delle imprese, destinati comunque a generare atteggiamenti prudenziali nell’uso delle risorse disponibili. Ma l’intervento di altri fattori è destinato a mutare la quantità e la qualità della domanda di prodotti e servizi e le stesse relazioni tra gli attori economici.



Il blocco delle attività produttive sta generando inevitabili tensioni nelle filiere della produzione tra committenti, fornitori e clienti, molti dei quali sono locati in altre nazioni. Le conseguenze dell’emergenza sanitaria nei settori del turismo e dei servizi rivolti alla mobilità delle persone non saranno di breve periodo. Con tutta probabilità altri comparti, quelli della sanità, dell’assistenza, delle reti di comunicazione potrebbero rafforzare il loro ruolo nell’economia nazionale. L’adeguamento delle infrastrutture digitali e l’utilizzo delle tecnologie informatiche nell’ambito delle organizzazioni del lavoro e nei rapporti con i clienti può rivoluzionare il sistema di erogazione dei servizi. E un’ulteriore spinta all’innovazione dei prodotti e dei processi da parte delle imprese.

Sul versante dell’occupazione i riflessi saranno notevoli. Aumenteranno i fabbisogni di mobilità del lavoro e di adeguamento delle competenze dei lavoratori. Il problema è come rendere questi percorsi sostenibili per le imprese e per i lavoratori e contenere i costi sociali per le persone più esposte al rischio di rimanere disoccupate.

Lecito chiedersi, a questo punto, qual è il posizionamento del sistema Italia. Nel breve periodo, l’impatto produttivo e occupazionale rischia di essere drammatico. I settori della manifattura e del turistico alberghiero, che scontano gli effetti più negativi dell’emergenza sanitaria internazionale, sono quelli che hanno generato negli ultimi 5 anni il 60% della crescita dell’occupazione italiana. Sul versante opposto i comparti della sanità e dei servizi socioassistenziali, che registrano un pesante sottodimensionamento rispetto alla media dei Paesi europei e ai fabbisogni di cura legati all’invecchiamento della nostra popolazione, potrebbero svolgere un ruolo trainante per la nuova occupazione. In generale sono i comparti dei servizi finalizzati alle persone e al mercato (lavoro domestico, istruzione, trasporti e manutenzioni, servizi alle imprese, comunicazione e nuove professioni) quelli che presentano i maggiori margini di crescita. Alla condizione di migliorare la produttività e di ridurre in modo sensibile la quantità del lavoro sommerso che continua a caratterizzare buona parte dei rapporti di lavoro dipendente delle prestazioni del lavoro autonomo.

Il salto di qualità può essere incentivato da tre importanti fattori: l’orientamento della spesa sociale verso la sanità e i sostegni alle famiglie, l’adozione di politiche fiscali mirate a far emergere il lavoro sommerso, il potenziamento delle infrastrutture digitali rivolte a sostenere l’erogazione erogazione dei nuovi servizi. Ma un ruolo decisivo lo devono svolgere le politiche dedicate all’offerta di lavoro. Come più volte sottolineato in precedenti articoli, i ritardi nazionali in materia sono inaccettabili. Dimostrati dal fatto che in presenza di un basso tasso di occupazione, il 58%, inferiore di 10 punti rispetto la media dei Paesi Ue, e di un pesante sottoutilizzo delle nostre risorse umane, le imprese trovano difficoltà nel reperire i lavoratori richiesti. E riemerge puntualmente la tentazione di programmare gli ingressi di nuovi immigrati per soddisfare la domanda di lavori esecutivi.

Eppure, anche se in presenza di una popolazione attiva mediamente anziana, la capacità di adattare le competenze ai nuovi fabbisogni è ampiamente confermata dagli investimenti fatti in questa direzione da molte imprese. L’esplosione dello smart working indotta dalla necessità di ridurre le presenze negli uffici, anche se improvvisata, ha dimostrato il potenziale di innovazione ancora inespresso nelle nostre imprese e nelle reti di erogazione.

A ben guardare, buona parte delle contraddizioni sottolineate sono principalmente la conseguenza dell’uso distorto delle nostre risorse pubbliche e del sottoutilizzo di quelle private. E non dei vincoli esterni e della competizione internazionale che vengono perennemente evocati per giustificare le nostre manchevolezze. Un approccio trascurato nelle analisi e del tutto assente nell’agenda politica. Un motivo ulteriore per cambiarla.

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