In una lettera di fine Settecento, Leopold Mozart scriveva a suo figlio Wolfgang Amadeus di tener sempre presente che ci sono differenze profonde tra i«beni immateriali» e i «beni materiali». I secondi – aggiungeva – «possono essere rubati, perduti». I primi, se li hai, «restano sempre con te e possono anche crescere e fruttare».
Questa frase, stralciata dal ricco epistolario della famiglia Mozart (3000 lettere, pubblicate da Zecchini Editore in un elegante cofanetto), spiega la drammaticità dei risultati dello studio Invalsi sulla didattica a distanza (Dad) nell’anno in cui è stata sospesa l’istruzione in presenza nelle scuole di quasi ogni ordine e grado.
In gran parte della stampa, però, i dati sono stati presentati in isolamento, mentre andrebbero collegati con studi precedenti dell’Ocse (le varie analisi Pisa, sulla misurazione dell’apprendimento). La misurazione dell’apprendimento è una disciplina relativamente nuova. Nasce negli anni Settanta del secolo scorso nell’ambito dell’International Institute of Educational Planning, una filiazione dell’Unesco, a opera principalmente di T. Neville Postlethwaite, professore di Istruzione comparata all’Università di Amburgo. I primi esperimenti vennero effettuati in Paesi in via di sviluppo, spesso su finanziamento della Banca mondiale. L’Ocse li ha standardizzati e conduce periodicamente analisi comparate tra i Paesi membri.
L’Italia esce abbastanza male da queste indagini: nelle discipline dove le analisi comparate sono, al tempo stesso, più fattibili e più eloquenti (matematica, scienze), gli studenti italiani (pur se hanno un anno di scuola secondaria in più dei loro coetanei di altri Paesi) sono mediamente tra gli ultimi in classifica. Inoltre, gli studenti delle regioni del Sud che hanno voti alti, hanno livelli di apprendimento inferiori a quelli del Nord che a malapena raggiungono la sufficienza. Quindi, il divario è duplice: tra noi e il resto dei Paesi industrializzati a economia di mercato e tra il Nord e il Sud.
Non è sempre stato così. Vale la pena di ricordare che nel secolo scorso due economisti di rango, che mai si sono incontrati o hanno letto l’uno i lavori dell’altro, l’americano Charles Kindleberger e l’ungherese Ferenc Janossy (neoclassico il primo, marxista il secondo), individuarono nella preparazione e formazione delle risorse umane italiane (mal utilizzate nei dieci anni circa di guerre, da quella d’Africa alla Seconda guerra mondiale), la determinante principale del «miracolo economico». Allora erano risorse umane giovani, intraprendenti, formate in gran misura per la manifattura e pronte a spostarsi dal Sud al Nord o anche all’estero alla ricerca di un futuro migliore. Erano la molla per lo sviluppo. L’alta qualità dell’istruzione e della formazione in Italia fu oggetto alla fine degli anni Cinquanta di un importante studio dell’Unesco e pochi anni dopo di uno dell’Ocse, nonché una determinante della decisione dell’Organizzazione internazionale del lavoro di localizzare a Torino il proprio centro di formazione professionale.
Da allora a ora, la situazione è drasticamente cambiata. Ogni anno, Education at Glance dell’Ocse e periodicamente le analisi di Ocse e Unesco ci ricordano che siamo tra i primi in termini di tassi di abbandono e tra gli ultimi in termini di indicatori di apprendimento e di percentuale di laureati nella forza lavoro. Anche il contesto è mutato, a cominciare dalla demografia. I giovani si trasferiscono meno volentieri dal Sud al Nord. Le nuove generazioni non devono più essere preparate principalmente per l’industria manifatturiera (come nel Novecento), ma per la tecnologia della scienza e dell’informazione: lo documentavano già circa venti anni fa due volumi della Scuola Nazionale d’Amministrazione, frutto di convegni internazionali a cui partecipò anche il Premio Nobel Lawrence Klein. Lo ripetono le analisi della Fondazione Agnelli, che, guidata da Andrea Gavosto, studia da anni il problema. Lo sottolineano numerosi approfondimenti di docenti universitari che si dedicano specialmente all’economia dell’istruzione.
L’istruzione è un capitolo importante del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Vengono destinati al settore quasi 20 miliardi di euro. La priorità della preparazione e della formazione delle giovani generazioni è stata centrale sin dal discorso del Presidente del Consiglio Mario Draghi alle Camere per la presentazione del piano. È una priorità ineccepibile. Lo stesso Ministro Patrizio Bianchi, dopo essersi dedicato per anni all’economia industriale, ha indirizzato le sue ricerche al nesso tra istruzione e crescita, e nella sua attività di servizio pubblico è stato assessore regionale all’innovazione per due mandati in Emilia-Romagna.
Tuttavia, il capitolo del Pnrr dedicato all’istruzione, e ancor più le schede, sono deludenti. Sotto il profilo delle «riforme» le idee di base sono ineccepibili: a) aumentare i contenuti di scienza e tecnologia nei programmi e b) rendere più equo l’accesso ai vari livelli d’istruzione. Tuttavia, gli strumenti indicati sono in gran misura piuttosto nebulosi. È chiaro il programma di edilizia scolastica per mettere «a norma» e rendere «ecocompatibili» gli istituti di ogni ordine e grado: è la prosecuzione di un programma iniziato circa sette anni fa e allora pomposamente chiamato «la buona scuola». È anche abbastanza chiaro il programma per aggiornare e migliorare gli istituti tecnici di Stato. È indubbiamente giustificato un programma per dare ai presidi formazione in materia manageriale, ma non si capisce perché si debba creare un’apposita Agenzia sotto l’egida del Ministero e non si utilizzino invece le strutture esistenti quali quelle della Scuola Nazionale d’Amministrazione.
Analogamente, è davvero necessario imbarcarsi nella costruzione di alloggi universitari, tanto più che il documento prevede un ampio uso di didattica a distanza (e l’acquisto della strumentazione necessaria)? E il vasto schema di maggiore diffusione di «scuole materne» è accompagnato da programmi di formazione per i docenti?
A questi interrogativi non secondari se ne aggiunge uno di fondo. Circa la metà delle risorse richieste all’Unione europea sono per spese considerate nelle regole della contabilità pubblica «di parte corrente» (borse di studio, di dottorato, di ricerca, stipendi, ecc.). Ciò avviene spesso in programmi d’istruzione. Tuttavia, il già ricordato International Institute for Educational Planning da circa cinquanta anni ha fornito direttive per distinguere tra le spese «di parte corrente» sotto il profilo contabile quelle che possono essere considerate spese di investimento ai fini di una corretta analisi micro-economica. Anche in questo campo, due “maestri” (il neoclassico Hans Thias e il marxista Martin Carnoy) convergono.
Torniamo a Leopoldo Mozart. Se vogliamo davvero mettere l’accento sui «beni immateriali» occorre pensare a una riforma profonda del settore che ponga l’accento sulla formazione e il reclutamento di docenti di vaglia, e non su geremiadi sulle stabilizzazioni di precari entrati chi sa come, su una revisione dei programmi e dei metodi di insegnamento e anche su un allineamento della struttura al resto dei Paesi Ocse. Di tutto ciò c’è molto poco nel Pnrr.
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