Negli ultimi giorni della settimana scorsa l’attenzione dei chroniqueurs economici si è concentrata su due temi: a) le implicazioni degli esiti delle elezioni sulla tenuta del Governo e, quindi, sulla politica economica; b) i rilievi della Commissione europea sul debito pubblico dell’Italia e l’eventuale apertura di una procedura d’infrazione. Si è parlato relativamente poco di lavoro e occupazione, nonostante ci fossero notizie ed eventi importanti. Strettamente collegati con la tenuta del Governo e con l’impostazione della politica economica.



In particolare, la mattina del 31 maggio, mentre a palazzo Koch il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco leggeva le Considerazioni finali della relazione annuale della Banca d’Italia, a poche centinaia di metri di distanza, nella Sala degli Orazi e dei Curiazi del Campidoglio, veniva celebrato il centenario dell’istituzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) Erano presenti autorità di Governo (era stato annunciato lo stesso Presidente della Repubblica) e rappresentanti delle parti sociali. Veniva, per l’occasione, presentato il documento della Commissione mondiale sul futuro del lavoro (di cui fa parte l’ex ministro del Lavoro italiano Enrico Giovannini) Lavorare per un Futuro Migliore. Pochi giorni prima, The Economist Intelligence Unit ha pubblicato un breve ma eloquente documento sull’occupazione nei Paesi Ocse. C’è un nesso non solo casuale tra i due documenti e il dibattito di politica economica in corso.



In primo luogo, non solo per ragioni di circostanza – l’Italia è stato uno dei Paesi fondatori dell’Oil – nella Sala degli Orazi e Curiazi, il Direttore Generale dell’Oil ha tenuto a ricordare che il nostro è stato uno degli Stati membri dell’organizzazione che hanno ratificato il maggior numero delle Convenzioni preparate e parafate a Ginevra (sede dell’Oil). Sono Convenzioni che riguardano i labour standards, ossia “i diritti e la qualità” del lavoro. Voglio ricordare che già alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, una monografia dell’Oil, Unemployment and Labour Market Flexibility: Italy, documentava come nel nostro Paese coesistevano, e coesistono, due mercati del lavoro: uno molto tutelato e poco flessibile e uno poco tutelato e molto flessibile. Anche nel secondo, però, i labour standards erano, e in gran parte sono, relativamente buoni a ragione della tradizione delle imprese a carattere familiare.



In secondo luogo, l’Italia è uno dei pochissimi Paesi Ocse che non partecipano alla festa di tutti i maggiori Paesi avanzati a economia di mercato poiché hanno raggiunto il più alto tasso di occupazione – da quando si pubblicano statistiche – della popolazione in età di lavoro. Negli ultimi cinque anni, nonostante il timore che l’innovazione tecnologica spiazzasse l’occupazione, i Paesi Ocse hanno creato ben 43 milioni di posti di lavoro, la media dei tassi di disoccupazione è la più bassa dai tempi dei “miracoli economici” dei trent’anni dopo la Seconda guerra mondiale (negli Usa è il 3,6% della forza di lavoro) e i salari reali stanno aumentando, specialmente nelle fasce del lavoro meno qualificato. L’Italia (un tasso di disoccupazione del 10%), la Spagna (14%) e la Grecia (18%) sono i Paesi che mancano all’appello. E non partecipano alla festa.

È da attribuirsi solo alle rigidità del mercato del lavoro? Sono state in gran misura smantellate negli ultimi dieci anni, anche se il cosiddetto Decreto dignità ne ha reintrodotte alcune. La ragione di fondo è la bassa crescita. “La debolezza della crescita dell’Italia negli ultimi vent’anni – ha ricordato il Governatore Ignazio Visco nelle Considerazioni finali – non è dipesa né dall’Unione europea, né dall’euro; quasi tutti gli altri Stati membri hanno fatto meglio di noi”. L’Italia ha reagito, e sta reagendo, in ritardo al cambiamento tecnologico e all’apertura dei mercati a livello globale. La specializzazione produttiva in settori maturi ha esposto l’economia alla concorrenza di prezzo di quelle emergenti. La mancata riduzione degli squilibri nei conti pubblici ha compresso i margini per le politiche volte alla stabilizzazione macroeconomica e a innalzare durevolmente la crescita.

Mentre al Campidoglio si celebrava l’Oil, e l’Italia nell’Oil, a palazzo Koch si sottolineava che negli ultimi anni è emersa l’inadeguatezza della governance economica dell’area dell’euro: le regole dei Trattati non sono state in grado di orientare in modo appropriato le politiche nazionali, di assicurarne il necessario coordinamento; l’assenza di strumenti comuni per la gestione delle crisi delle economie nazionali le ha rese più lunghe e profonde e ha favorito fenomeni di contagio. Le linee di riforma prefigurate dopo la fase più acuta della crisi prevedevano il graduale rafforzamento del processo di integrazione, prima nell’ambito finanziario e poi in quello della finanza pubblica. I progressi sono stati parziali.

Indubbiamente, una migliore governance europea – si pensi al completamento dell’unione bancaria – è essenziale. Ma per ottenerla, l’Italia deve evitare di essere isolata in quello che un tempo si chiamava consesso europeo. E in parallelo effettuare un’attenta opera di risanamento della finanza pubblica, partendo dall’eliminazione di spese improduttive (anche introdotte di recente), soprattutto quelle che incentivano il lavoro nero e ingarbugliano l’occupazione.