Le previsioni autunnali della Commissione europea, pubblicate ieri, indicano per l’Italia che, dopo un rimbalzo nel 2021 (una crescita del 4,1% del Pil), ci sarà un secondo rallentamento nel 2022 (una crescita del 2,8% del Pil) e solamente nel 2024 si tornerà ai livelli del Pil del 2019. Dato che il Pil pro-capite del 2019 era più o meno ai livelli di quello di 23 anni prima, siamo alla prese con un trentennio perduto (ben più grave del decennio perduto di cui si parlava in America Latina negli ultimi anni del secolo scorso). Un handicap gravissimo per le giovani generazioni che si affacciano sul mercato del lavoro, per i giovanissimi che si approcciano alla scuola e anche per coloro che vanno in pensione dato che il trattamento dipende da un montante figurativo molto reattivo alla crescita economica.



Tutto ciò è grave, ma lo ancora di più il fatto che le proiezioni devono considerarsi ottimistiche per tutti quei Paesi dell’Unione europea che nelle ultime settimane hanno deliberato lockdown più o meno severi per ridurre i contatti – unica arma per ora disponibile di un nemico (il Covid-19) manufatto in Cina (dove non si accetta una commissione internazionale d’inchiesta sotto l’egida dell’Organizzazione mondiale della sanità) non si sa in che modo e per quali fini.



Non sta a un chroniqueur entrare nelle polemiche tra epidemiologi su una materia tanto complessa e tanto delicata quali le armi possibili contro un nemico che non si conosce, che ha fortissima contagiosità e un grado elevato di letalità specialmente per alcune fasce di cittadini. Non sta neanche a me entrare nella polemica se ai fini del contrasto al virus e alla resistenza del sistema economico siano più efficienti e più efficaci restrizioni nazionali o regionali. Tuttavia, con oltre quaranta anni di insegnamento di economia in Italia e negli Usa, un po’ mi intendo di indicatori. L’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio rimanda al Dpcm di aprile che individua 21 indicatori per valutare la situazione epidemiologica di ogni singolo territorio/Regione. I 21 indicatori sono suddivisi in tre diverse categorie: a) indicatori di processo sulla capacità di monitoraggio; b) indicatori di processo sulla capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti; c) indicatori di risultato relativi a stabilità di trasmissione e alla tenuta dei servizi sanitari.

Da aprile a oggi non è stato dato di sapere: a) quando e da chi ciascun rilevatore viene rilevato e b) a fini decisionali se tali indicatori vengono aggregati costruendo un indice composito o se si fa uso di un’analisi multicriteri. Nell’eventualità di un indice composito occorre chiarire quali sono le ponderazioni di ciascun indicatore; tali ponderazioni sono eminentemente politiche e non dovrebbero essere solo comunicate per informativa ma presentate in Parlamento per essere discusse, se del caso emendate e infine approvate con una risoluzione. Nel caso di analisi multicriteri, occorre esplicitare quali sono i criteri e la rilevanza di ciascuno di essi.

Negli ultimi cinquanta anni sono stati pubblicati decine di libri di testo in materia. L’argomento viene trattato regolarmente alla Scuola nazionale d’amministrazione (Sna). Sino a quando non si precisano questi punti, l’applicazione di tali indicatori non solo non ha base scientifica, ma, con rispetto parlando, si manda al diavolo non la trasparenza (di cui ama discettare in televisione il Presidente del Consiglio), ma soprattutto la democrazia.

Le restrizioni frenano le attività produttive e, quindi, la crescita. Durante la primavera scorsa, su un’altra testata, espressi che sotto il profilo strettamente economico erano giustificate dato il valore economico della vita umana oggi in Italia (anche senza entrare in considerazioni etiche o religiose). Mi sarei aspettato che l’orda di consulenti che affollano, a carico dell’erario (ossia di tutti noi), palazzo Chigi e dintorni presentasse un documento su questo tema utilizzando pure la semplice metodologia elaborata da E.J. Mishan nel 1951 e aggiornata nel 1981. Spero che non siano tutti come un paio di economisti che vagano nel Palazzo e dintorni da vent’anni e che sono in effetti specialisti in corsa da sinistra e destra e da destra a sinistra perché i potenti di turno rinnovino le loro prebende.

Tutti i medici sanno che quando si prescrivono antibiotici (le restrizioni) è bene anche somministrare vitamine. Quali sono le vitamine nella terapia suggerita? Proprio oggi 6 novembre all’Istituto Affari Internazionali a Roma viene presentato il libro di Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan L’economia europea tra crisi e crescita (Il Mulino 2020). Il 23 ottobre è uscito il libro di Gustavo Piga L’interregno – Una terza via per l’Italia e l’Europa (Hoepli, 2020). Sono economisti di scuole differenti, ma raccomandano una forte iniezione d’investimento pubblico. D’altronde, il 15 ottobre è uscito il Fiscal Monitor autunnale del Fondo monetario internazionale: per la prima volta nei 76 anni della vita dell’istituzione è dedicato all’investimento pubblico tanto che, pur se ignorato in Italia, è stato ampiamente discusso in molti Paesi europei e non solo.

L’Istat ci ricorda che la spesa per investimenti ha presentato nel corso dell’ultimo decennio un andamento, grosso modo, analogo a quello generale dell’attività economica. Escludendo quelli cofinanziati con l’Ue gli investimenti pubblici italiani sono uno zero virgola del Pil, mentre il Paese sguazza nel reddito di cittadinanza.

Che fine ha fatto il programma di investimenti proposto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte? E il piano shock che secondo il senatore Matteo Renzi sarebbe stato una condizione per Italia Viva di restare al Governo? Interrogati, esperti di Palazzo Chigi dicono che tali piani e programmi sono finiti nel «tunnel del lungo termine».