Secondo le stime della Commissione europea, l’Italia nel 2019 sarà il Paese con la crescita del Pil più bassa di tutta Europa. Le parti bassissime della classifica sono una costante dell’ultimo decennio a testimonianza del fatto che i “problemi” del nostro Paese sono una costante che si ripete con governi di centro-destra, centro-sinistra, tecnici o sovranisti. L’altra costante è uno dei deficit su Pil più bassi d’Europa anche in fasi di crisi globale, ma questo è un altro discorso. La novità di questa classifica è la Germania al penultimo posto dopo mesi in cui i principali indicatori dell’economia tedesca mandano segnali decisamente preoccupanti. Questo per noi non è motivo di conforto e tanto meno di sollievo. Quasi sempre quando il tuo vicino o il tuo concorrente non sta molto bene non c’è niente da festeggiare.



Il modello economico tedesco, imposto al resto d’Europa, si basa su alcuni presupposti. Che la crescita globale sia robusta, che gli altri Paesi investano e aumentino la domanda interna, che i commerci globali rimangano aperti e nessuno blocchi le frontiere e infine che in periodi di crisi gli altri facciano politiche anticicliche. Questo modello è stato messo in crisi dalle tensioni crescenti tra Cina e Stati Uniti e dal rallentamento dopo anni di espansione post-Lehman. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, i problemi dell’Europa non arrivano, direttamente, dall’America.



Infatti, nei primi cinque mesi dell’anno le importazioni americane dall’Unione europea sono cresciute del 22,5% rispetto al 2018. Le politiche fiscali di Trump trainano anche l’Europa perché le barriere commerciali sono ancora apertissime tra Europa e Stati Uniti. Anche per questo l’atteggiamento tedesco e l’austerity europea sono un problema nei contesti che contano molto di più del deficit italiano. Le attuali politiche economiche americane non cambieranno in modo sostanziale i rapporti commerciali con l’Europa e non intaccheranno il deficit commerciale con cui si spinge l’economia europea.



L’America potrebbe rompere prassi decennali con alleati o semi-alleati, ma non sembra molto probabile. Quello che invece potrebbe fare è chiedere ai partner europei di fare la loro parte per stimolare l’economia e la crescita globale. Questi squilibri ormai insostenibili, soprattutto in una fase di confronto con la Cina, si potrebbero ridurre senza i traumi dei dazi se Europa e Germania in primis, in aggiunta al Giappone, stimolassero la loro economia investendo. Il problema è che questa richiesta, in Europa, comporta un cambiamento del modello europeo, un possibile allentamento dell’austerity che ha fatto la fortuna dell’Europa core anche a discapito di quella periferica e magari un riequilibrio dei rapporti interni all’Europa.

La risposta alle richieste americane di ridurre squilibri insostenibili è un passaggio fondamentale non solo nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa, ma per l’Europa stessa. Se essa pretende un ruolo terzo rispetto a Cina e Stati Uniti e di minore subalternità non può pensare di continuare a lucrare senza impegni su liberi commerci globali sperando che gli Stati Uniti non si accorgano e ignorino all’infinito le disobbedienze nei rapporti geopolitici.

Pensiamo solo alla trattativa tra Europa e Regno Unito dei prossimi mesi. La Germania che si presenta al tavolo con gli ordini in picchiata tendenzialmente non ha tutto il potere contrattuale che potrebbe o vorrebbe avere nei confronti di quello che rimane una delle principali destinazioni del proprio export. Se si vuole contare di più occorre cambiare modello, altrimenti il rischio è che la costruzione si spezzi sotto le pressioni di stati che legittimamente vorrebbero stare da una parte o dall’altra nell’alternativa tra Stati Uniti e Cina.