“La società signorile di massa” è il titolo dell’ultimo libro di Luca Ricolfi: sociologo, scrittore, presidente della Fondazione David Hume. Si tratta di un volume che accende molte lampadine perché spiega in che razza di situazione ci siamo cacciati noi italiani, unici in Europa, avendo totalizzato le tre caratteristiche che la contraddistinguono: le persone che non lavorano hanno superato in numero quelle che lavorano, la maggior parte della popolazione può consentirsi consumi opulenti, l’economia è stazionaria.
Questa particolare combinazione comporta la compresenza di una minoranza di cittadini che vive in condizioni assai difficili e confrontabili, con qualche forzatura, all’antica schiavitù. Chi è fuori dal cerchio magico dell’agiatezza vive di stenti e alla giornata dovendosi accontentare, quando va bene, dei famosi lavoretti che consentono di tirare avanti, ma non certo di sperimentare e progettare una vita dignitosa. L’introduzione di misure come il Reddito di cittadinanza conferma la tendenza.
Come sia possibile tenere in piedi una comunità così organizzata, con la maggioranza della gente che consuma senza produrre, è presto detto: si fa ricorso alla ricchezza accumulata e alle pensioni di padri e nonni che hanno potuto raggiungere posizioni di conforto in un’epoca, lontana ma non troppo, dominata da tutt’altra mentalità: voglia di crescere, spirito di sacrificio, capacità di realizzare. Poi il circuito si è interrotto: qualcosa ha cominciato a non funzionare più bene come prima e non si è corso ai ripari per tempo.
È chiaro ed evidente che una società siffatta – signorile di massa perché i molti che si appropriano del prodotto altrui fanno esattamente come i Signori di una volta – può stare in equilibrio per un breve periodo che potremmo definire di passaggio. Poi il piano s’inclina e bisogna stabilire da che parte andare: verso il basso declinando o verso l’alto tornando ad avanzare. Di qui non si scappa. Il momento che stiamo vivendo è fortemente condizionato dall’incertezza. Non c’è visibilità sul futuro, si gioca su un terreno sconosciuto.
La visione di breve termine prende il sopravvento sulle altre proprio mentre si avrebbe un gran bisogno di alzare lo sguardo verso l’orizzonte e cercare di capire da che parte rivolgere la prua della nostra esistenza, individuale e collettiva. Sappiamo perfettamente che se non ricostruiamo un clima di fiducia e rilanciamo gli investimenti, rassicurando i capitali interni e attirando quelli esteri, sarà molto difficile tenere in piedi un Paese che mostra di sbriciolarsi in forma fisica e metaforica.
Ma indugiamo in piccole tattiche del giorno per giorno – che sono il male assoluto della politica e dell’economia – quasi mostrando fastidio per chi lavora e produce, scoraggiando così gli imprenditori la cui voglia di fare è imbrigliata in ogni modo possibile. Viviamo come in un castello incantato – indifferenti al nostro destino – confidando nel lieto fine assegnato alle favole. Solo che nella vita reale non sarà il bacio di un principe o una principessa a venirci a svegliare, ma la dura realtà. Meglio salvarci da noi.