Investire, investire e ancora investire: per affrontare gli enormi compiti dei prossimi anni, sostenere la sfida cinese e non aumentare il divario con gli Stati Uniti, l’Europa avrà bisogno di ingenti somme di denaro in tempi brevi. I Governi da soli non ce la faranno, occorre mettere insieme risorse pubbliche e private. È il messaggio che ha lanciato Mario Draghi ieri da Gent nelle Fiandre belghe dove partecipa alla riunione informale dell’Ecofin, cioè i ministri finanziari dell’Ue. L’ex presidente della Bce ed ex capo del Governo italiano è stato incaricato da Ursula von der Leyen di preparare un rapporto sulla competitività che dovrebbe essere presentato dopo le elezioni europee.



Draghi ha più volte espresso la sua visione, anche in un recente intervento a Washington. Ecco alcuni passaggi significativi: “In primo luogo deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti. In Europa possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente”. Ciò significa “emissione di debito comune per finanziare gli investimenti”, in altre parole eurobond, quindi ricorso al mercato privato, “per alleggerire la pressione sui bilanci nazionali” a loro volta orientati non più prevalentemente sul sostegno ai consumi. In questo modo verrebbe consentito alle banche centrali di condurre una politica monetaria non più restrittiva, distinguendo “gli shock temporanei dai rischi di inflazione persistente”.



Si tratta, dunque, di coordinare politica monetaria e politica fiscale in modo che la prima tenga sotto controllo l’inflazione “cattiva” e l’altra faccia da volano alla crescita del prodotto, della produttività e dei salari. A questo rapporto tra banche centrali e Governi ha fatto riferimento anche Christine Lagarde. La presidente della Bce ha ricordato le trattative in corso per i rinnovi dei contratti e ha giudicato “incoraggianti” i segnali che arrivano dagli aumenti salariali. In altre parole, dal mondo del lavoro non verranno pressioni sui prezzi. Tuttavia, la Bce non è ancora pronta a ridurre i tassi d’interesse. Joachim Nagel, presidente della Bundesbank, lo ha detto chiaro e tondo. E ciò mette in luce la contraddizione di fondo che oggi blocca l’Unione Europea e soprattutto l’area euro. Una contraddizione che da Francoforte ci porta a Berlino.



Gli Stati Uniti viaggiano a un ritmo superiore al 3% l’anno. La Gran Bretagna ristagna (-0,2% l’ultimo dato). L’area euro cresce di appena lo 0,1% trascinata in basso dai falchi della politica monetaria: dall’Austria (-1,8%), dall’Olanda (-0,5%) e dalla Germania (-0,2%). Il prodotto lordo tedesco, che si avvicina a 4.500 miliardi di euro, si colloca al terzo posto mondiale dopo Usa e Cina, avendo superato ormai il Giappone. La Germania, dunque, è più che mai l’unico Paese in grado di fare da locomotiva all’intera Europa, Gran Bretagna compresa. Il governo di Berlino, incerto e diviso, è ricorso a una serie di escamotage per finanziare gli investimenti senza pesare sul bilancio statale, ma ha combinato pasticci. Il tentativo di rispettare un’astratta regola del pareggio si è trasformato in un boomerang, e a questo punto deve far fronte a quel disavanzo che voleva evitare. Eppure, nonostante ciò, ha più margini di manovra non solo dell’Italia, ma della Francia, del Belgio, della stessa Spagna che pure cresce più degli altri.

A chi è rivolto dunque l’invito di madame Lagarde se non al cancelliere, il socialdemocratico Olaf Scholz, e al ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner? Debbono avere il coraggio di mettere in moto la motrice e trascinare il resto dei vagoni, pur con tutte le cautele necessarie. Ma attenzione, nemmeno la Bundesbank può sfuggire alle proprie responsabilità, che sono certo quelle di mantenere i prezzi entro il 2%, ma anche di favorire lo sviluppo, come è scritto nel Patto di stabilità e crescita. La Germania, dunque, deve accettare il ruolo che spetta alla prima economia europea, terza nel mondo intero.

Senza crescita anche il mercato dei capitali è destinato a deperire. Proprio Lagarde ha denunciato l’ingente fuga di capitali: 250 miliardi di euro, pari all’1,8% del Pil europeo, lasciano l’Europa per andare soprattutto negli Stati Uniti, cioè là dove l’economia cresce di più e spinge la borsa. La presidente della Bce ha sottolineato che a partire dal 2031 ci vorranno 800 miliardi di euro l’anno per rispettare gli impegni della transizione ecologica. Davvero i signori del denaro sarebbe disposti a investire in una economia che ristagna, lasciata com’è al “pilota automatico” della Bce?

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