Un virus e viene giù tutto. Sì, tutto, pure l’economia e in tutto il mondo! Già oggi, nel mondo abbiente, oltre quattro miliardi di persone ne sono restate invischiate; quando sarà finita questa pandemia, toccherà trovarci a fare i conti con quella della penuria a cui già sembrava costretto il mondo dalla “stagnazione secolare”.
Pandemia della penuria che costringerà a rifare i conti con i modelli economici già utilizzati, sottoponendoli a stress test. Stressare un “Trattato dell’Economia dei consumi” nuovo di zecca, può rappresentare l’occasione per verificarne la tenuta. Già proprio di quell’economia che, ben prima del virus, risultava infettata dagli squilibri.
Oggi con il virus, al mercato, produzione e consumo non possono incontrarsi; ancor meno darsi la mano per la ratifica del prezzo; il che, seppur in modalità tecnica, può generare addirittura incubi (21 aprile: il future, scadenza maggio, sul petrolio misura il disastro causato dal forte divario di fondo tra offerta, in eccesso, e domanda prosciugata a causa del blocco delle attività da coronavirus. Gli stock di greggio poi sono pieni, perfino le petroliere spesso non sono in grado di svuotare il carico. I prezzi sono andati a picco e ieri il Nymex, alla Borsa merci di New York, ha dovuto accettare che i prezzi finissero, fino a -33.99).
Il termometro statistico invece, a marzo, misura il tonfo della fiducia di consumatori e imprese italiane sotto l’impatto dell’epidemia di Covid-19. Secondo dati Istat, l’indice composito del clima di fiducia delle imprese precipita a quota 81,7 da 97,8 del mese precedente, toccando il minimo dal giugno 2013. La fiducia dei consumatori scende sensibilmente fermandosi a 101,0 da 110,9 del mese prima, minimo dal gennaio 2015.
Quand’è cosi, la febbre sale: il presidente della Federal Reserve Bank di St. Louis, James Bullard, ha dichiarato in un’intervista a Bloomberg News che il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti potrebbe raggiungere il 30% nei prossimi mesi, a causa delle restrizioni che verranno poste alle attività per frenare l’epidemia; il think tank tedesco Ifo dice che, a causa del coronavirus, la Germania potrebbe subire una contrazione del Pil fino a 20 punti percentuali, la perdita di milioni di posti di lavoro e un costo di oltre 700 miliardi di euro; in Cina, nel primo trimestre dell’anno, i consumi sono diminuiti del 24%. L’Ocse ci mette il carico da undici: “Ogni mese di contenimento della pandemia comporterà una perdita annuale di due punti di Pil”.
C’è pure chi si rifiuta di voler misurare la febbre: “A causa del carattere eccezionale dell’attuale fase economica e degli ampi margini di incertezza sulla sua evoluzione, anche nel breve termine, viene sospesa la diffusione dell’ Euro Zone Economic Outlook”.
Quando, insomma, un antipiretico non sembra bastare, squilli di trombe e rombi di cannone lacerano l’aria: entra in campo l’artiglieria pesante.
Il Governo della Cancelliera Angela Merkel ha concordato un pacchetto del valore di oltre 750 miliardi di euro per mitigare l’impatto diretto della pandemia e in Germania verrà quindi contratto nuovo debito per la prima volta dal 2013. Nel dettaglio, il piano prevede 122,8 miliardi di euro in aiuti alle imprese e al servizio sanitario. Il Senato Usa approva e mette in campo 2.000 miliardi di dollari a favore di lavoratori e industrie colpite dalla pandemia. La poderosa quanto anchilosata Ue intende, con il Mes, mettere 250 miliardi di euro a sostegno all’economia per il 2020 in favore dei vari Paesi membri, a cui vanno aggiunti altri 74 miliardi dal budget Ue.
I Paesi del G20 riunito dicono: “Siamo determinati a non lesinare alcuno sforzo individuale e collettivo per proteggere i posti di lavoro delle persone, ristabilire la crescita, mantenere la stabilità finanziaria, limitare l’impatto della pandemia sul commercio e coordinare le azioni in materia sanitaria e finanziaria. Siamo pronti a reagire tempestivamente e intraprendere qualsiasi ulteriore azione che possa essere richiesta”. Per farlo, sembra si stiano iniettando oltre 5.000 miliardi di dollari nell’economia globale. Alla fine anche il Giappone si è arreso all’evidenza e il premier Shinzo Abe ha dichiarato lo stato di emergenza per il Coronavirus; il governo ha varato un pacchetto di stimolo del valore di 990 miliardi di dollari, il 20% del Pil, per attutire l’impatto dell’epidemia.
La Banca mondiale scende in campo per far fronte all’emergenza coronavirus. Lo farà stanziando 160 miliardi di dollari nel corso dei prossimi 15 mesi. Le banche centrali hanno riacceso le stampanti monetarie per fornire liquidità a chicchessia. Tutte e tutto per surrogare redditi insufficienti a fare la spesa aggregata.
Mario Draghi, ex di lusso Bce, dice la sua al Financial Times perché tutti la leggano: “Agire subito senza preoccuparsi dell’aumento del debito pubblico… bisogna immettere subito liquidità nel sistema e le banche devono fare la loro parte, prestando danaro a costo zero alle imprese, per aiutarle a salvare i posti di lavoro. Proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità”.
Debito però che, quando “troppo in alto sal cade sovente….”, trova detrattori e sostenitori. I primi vorranno ridurlo a colpi di patrimoniale, senza se e senza ma; i secondi, più realisti del re, attrezzeranno moratorie… magari una Banca Centrale del Mondo, definita all’uopo, che monetizzi il debito acquistando sul mercato “titoli di debito perpetuo, zero coupon” emessi… da quelli che hanno l’acqua alla gola.
Verrebbe da dire sia come sia se non fosse che… il domani sarà come faremo che sia! Dunque, faremo: Draghi, cambiando il registro della politica monetaria del controllo di prezzi, cambia pure l’indirizzo; le azioni, di “sussidio alla sopravvivenza”, vanno recapitate al capitale e al lavoro! Già, per quanto la congiuntura lo esiga, il vecchio vizio non si scorda mai; al consumo, inteso solo e sempre funzione accessoria del produrre, vanno solo gli spiccioli. Tant’è, il credito del proferente e il tono del proferito, non ammettono repliche.
Vabbè, dai: soccorrere ma… tra quest’oggi e il come è stato lo ieri, qual domani si speme e tocca divinare? Orbene, per non soccombere ai cattivi presagi, occorre trar lezione da come si stesse appunto in quel prima, prossimo alla recessione, poi nel recedere d’oggi; per non dover ristagnare domani.
Osservare il reale, attraverso l’evidenza empirica, consente di eliminare le viscosità mostrate dai modelli previsivi che sono stati fin qui utilizzati. Giust’appunto, quell’evidenza di come si stesse prima della pandemia: sovraccapacità dell’impresa, sottocapacità della spesa, affrancamento dal bisogno; redditi insufficienti, sorretti dal debito oltre ogni ragionevole limite. Il prezzo fatto dal mercato per tal impiego dei fattori produttivi, risultava alterato dalle azioni reflattive messe in campo per stroncare la deflazione. Il gap dell’output lo grida; strepitano invece i prezzi inflazionati fatti da altre asset class: azioni, obbligazioni, valori immobiliari.
Questo bug del “prezzo in-giusto”, che ci aveva fatto entrare nella crisi del 2007 e che ancora attanaglia, ci sbatte oggi in nel mondo pandemizzato.
Una sequenza non occasionale mostra una successione che atterrisce lo spirito, mortifica la produttività del sistema. Dall’affrancamento dal bisogno i consumatori ricavano libertà di azione; ottenuta con l’indebitarsi diventano bolsi. Il mancato risparmio poi ha ridotto l’efficacia dell’esercizio di consumazione nel controllo dei prezzi, limitando pure quegli investimenti industriali e commerciali necessari per migliorare la qualità del prodotto che avrebbero ridotto prima i costi unitari poi i prezzi. Il credito, elargito come se piovesse, ha rifocillato tutto e tutti salvando dal giudizio del mercato aziende zombie. Toh, proprio quelle che più concorrono a limitare l’impiego produttivo di quelle giovani generazioni che pur dispongono del capitale, umano e sociale, per migliorare l’efficienza del produrre e nel consumare; tenuti fuori dall’intero processo produttivo, aumenta ancor più il gap dell’output del sistema.
In quest’oggi poi, contratto nella pandemia, lo sconquasso del lockdown aggraverà il già grave: Ferma la produzione, si potrà ridurre l’eccesso in magazzino; le imprese però mostreranno maggiore capacità produttiva inutilizzata. Se non si potrà far la spesa, si ridurrà l’affrancamento dal bisogno; senza reddito non si potranno fare neppure quegli acquisti di bisogno. Si ridurranno ancor più i risparmi; il tasso di occupazione, già al 65%, precipiterà a far mancare il potere d’acquisto ad altri, oltre ai troppi che già non l’hanno, per poter fare la spesa.
Il debito, a oggi inestimabile, che verrà impiegato per salvare la baracca verrà ad aggiungersi a quei 255.000 miliardi di dollari che già infestano e che reflazionerà ancor più il mondo. L’Institute of International Finance stima, con una previsione basata sul semplice presupposto di un raddoppio dei deficit pubblici e una contrazione del 3% dell’economia globale, come l’incidenza del debito globale sul Pil balzerà in un solo anno dal 322% al 342%.
Debito d’oggi che aggraverà ancor più il domani; toh, proprio di quelle giovani generazioni, già gravate dall’onere di quello contratto per gli studi, finalizzati ad attrezzare il loro capitale umano; avranno ancor meno occasioni per lavorare e consumare. Botte, corna e chitarra rotta, insomma; non solo la loro, quella di tutti i suonatori!
Alla fine della fiera, un mercato, ancor più opaco e inefficiente nel fare il prezzo, saprà farlo? Dovrà farlo, quando potrà tornare a ospitare chi domanda e chi offre; proprio per contrattare e fare il prezzo. Per poterlo fare dovrà esserci chi abbia prodotto merci e chi ne avrà bisogno, che dovrà avere i soldi in tasca per poterle acquistare. Sì, esattamente come prima anzi, prima del prima poiché lì almeno si riusciva a trovare quell’equilibrio che ha consentito crescite ancora sane.
Dopo il lockdown sussisteranno ancora le condizioni di base per poter dar corso a tal appetita crescita. Gli impresari avranno ancora, seppur ammaccato, il capitale come pure le strutture d’impresa; disporranno ancora delle competenze e di quegli incoercibili animal spirits per fare la loro parte. I consumatori, per far la loro, metteranno il neo rinato bisogno; avranno poi la riserva delle emozioni, le passioni finanche le esperienze da poter soddisfare. Per strafare potranno fare pure altro; consumando l’acquistato daranno la stura a quelle stesse imprese nel poter riprodurre, dando continuità al ciclo; con l’Iva pagata finanzieranno parte della spesa pubblica; se riusciranno ad avere in tasca il resto, investito, finanzierà gli investimenti delle imprese. Con cotanto fare genereranno i due terzi di quella domanda aggregata che genererà la ricchezza; quel terzo che faranno altri, lo sovvenzioneranno.
(1- continua)