La Germania è riuscita a “schivare” la recessione tecnica. Ieri, infatti, il Destatis ha diffuso la stima sul Pil del terzo trimestre 2019, cresciuto dello 0,1%. Un dato superiore alle aspettative, che prevedevano un -0,1%. Su base annua, l’aumento è stato dell’1%, contro una stima degli analisti dello 0,9%. Si può nutrire qualche speranza, visti i noti legami tra l’industria tedesca e quella italiana, del nord in particolare, per questi numeri? Lo abbiamo chiesto a Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison.
Cosa pensa di questi numeri sull’economia tedesca?
Certo è stata evitata la recessione tecnica, ma il Destatis ha anche rivisto il dato sul Pil del secondo trimestre, portandolo da -0,1% a -0,2%. È anche vero che quello del primo trimestre è stato rivisto a +0,5% da +0,4%. In ogni caso, guardando il periodo gennaio-settembre il Pil della Germania è aumentato dello 0,3%. Si tratta di una crescita debolissima. Mi pare che abbia sintetizzato bene la situazione lo stesso ministro dell’Economia tedesco, Peter Altmaier: “Non abbiamo una recessione tecnica, ma i numeri sulla crescita sono ancora troppo deboli”.
Nei giorni scorsi abbiamo letti gli allarmi sul rallentamento, dopo quello dell’industria bresciana, anche di quella bergamasca, indubbiamente legate entrambe al settore automotive tedesco. Questo dato cosa ci dice al riguardo?
Una Germania così debole non può non impensierire chi ha più diretti contatti con lei, come appunto le industrie del Nord Italia. Fino a questo momento, come abbiamo visto anche nel dato italiano, la crisi tedesca si è riverberata soprattutto in una riduzione delle scorte, perché l’export non è stato così negativo. Ma è chiaro che se l’economia teutonica resterà stagnante le esportazioni delle nostre imprese ne risentiranno. Ci troviamo di fronte a una situazione molto delicata, perché la Germania non sembra dotata di caratteristiche per venir fuori da questa situazione nel breve termine. Se analizziamo le ragioni per cui c’è stato questa crescita dello 0,1% vediamo infatti che c’è stato un aumento di spesa pubblica e di investimenti in costruzioni, mentre sono scesi quelli in macchinari e tecnologie: un +0,1% dovuto a spesa pubblica e costruzioni mi fa pensare che il settore privato sia ancora debole.
La Germania ha già annunciato un piano di investimenti verdi da 100 miliardi nei prossimi dieci anni, probabilmente aumenterà anche le pensioni minime e per la Commissione europea l’anno prossimo crescerà dell’1%…
Non è che si tratti di un tasso di sviluppo così mirabolante e credo che non sarà facile arrivarci. Ritengo che la Germania abbia davanti un periodo di crescita estremamente debole, perché la crisi dell’auto resta molto forte. Quindi o la Germania recupera spazi di manovra più consistenti persino di quelli annunciati finora, altrimenti è difficile che riesca a ripartire. Occorre un piano di investimenti pubblici molto più massiccio. Anche perché nel frattempo quelli delle imprese stanno diminuendo, come ci dicono i dati sul terzo trimestre dell’anno.
Non è facile però convincere la Germania a discostarsi dal pareggio di bilancio…
La Germania deve secondo me uscire da questa specie di fobia del tutto ingiustificata verso l’indebitamento, soprattutto nel momento in cui sta raggiungendo un debito/Pil del 60%. È come chi dopo una dieta con cui ha raggiunto il suo peso forma non ha poi le forze per fare una corsa: c’è un limite al dimagrimento, soprattutto se c’è una fase difficile dell’economia mondiale, testimoniata anche dal rallentamento del Giappone (+0,1% nel terzo trimestre), altro Paese esportatore. L’Europa, in questo contesto, se non rilancia la domanda interna – e la Germania deve essere in prima fila a far questo essendo il Paese principale dell’Ue – rischia di rimanere indietro rispetto al resto del mondo.
Si può essere fiduciosi che ciò avvenga, visto anche il clima che c’è sulla nascita della nuova Commissione europea, con questa sorta di scontro tra Francia e Germania sullo sfondo?
In questo momento la Francia, pur con tutti i suoi squilibri interni, anche sociali, sta facendo vedere come si riesce a crescere a un Paese che è ossessionato dal deficit come la Germania. Se la Germania copiasse un po’ la Francia, si troverebbe il bandolo della matassa: Berlino deve fare un po’ più di spesa pubblica, un po’ più di investimenti, altrimenti l’Europa rischia di affossarsi. O si tira fuori un progetto e la Commissione europea riesce a farsi portavoce dell’esigenza di rilanciare in maniera sostanziale la domanda interna europea oppure rischiamo di entrare in una fase di crescita debolissima, o di stagnazione per alcuni Paesi come il nostro, per alcuni anni.
All’Italia conviene quindi cercare di fare pressing, insieme alla Francia, sulla Germania per andare nella direzione che ha appena indicato?
Non c’è alcun dubbio. L’Italia dovrebbe però anche cominciare a rappresentare meglio la propria situazione in Europa. Sembra sempre che andiamo con il cappello in mano a chiedere flessibilità. Purtroppo abbiamo delle clausole di salvaguardia che servono a rispettare il Fiscal compact, una sorta di ossessione prioritaria. Che invece dovrebbe essere quella di far ripartire crescita e occupazione. L’Europa continua a ripetere che bisogna abbattere il debito/Pil, ma questa non è la priorità della popolazione europea e non credo nemmeno della maggioranza dei tedeschi. Non penso infatti che siano contenti di come vanno le cose. Forse si stanno accorgendo che il loro modello era a termine.
In che senso a termine?
Ha funzionato finché gli altri paesi europei, a tassi di cambio fissi, hanno comprato automobili tedesche. Siamo di fronte a un problema di mancata comprensione della sostenibilità del modello economico della Germania: nel momento in cui la domanda interna europea si è afflosciata, sono finiti anche i tassi di crescita di cui ha goduto dal 2000 al 2008. I tedeschi sono andati avanti sperando che la domanda mondiale potesse tenerli in piedi, ma sono 4-5 anni che la domanda estera netta non contribuisce più alla loro crescita. In questi ultimi anni è stata la mano pubblica a farli crescere, ma ora devono fare di più, anche di quello che hanno già annunciato.
(Lorenzo Torrisi)