La scorsa settimana dall’Istat sono arrivate conferme sul buon andamento dell’economia, nonostante il dato negativo dell’ultimo trimestre del 2022, ma anche segnali non confortanti sul fronte dell’inflazione, visto che a fronte di una lieve diminuzione dell’indice generale dei prezzi, a febbraio c’è stato ancora un aumento per il cosiddetto carrello della spesa.



Secondo Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, «è vero che alcuni prezzi si mantengono ancora elevati perché le produzioni hanno incorporato i rincari energetici dei mesi scorsi, ma a mio avviso l’inflazione tenderà a scendere in maniera significativa in termini tendenziali, anche perché con il passare dei mesi ci si confronterà con rialzi che nel 2022 sono stati via via più elevati».



L’inflazione appare comunque più persistente di come si immaginava solo l’anno scorso.

Siamo entrati in un’era dove le tensioni dal lato dell’offerta, per quanto riguarda soprattutto l’Europa che è un po’ un vaso di coccio nell’ambito degli approvvigionamenti sia delle materie prime che dei semilavorati rispetto ad altre aree mondiali, porteranno fatalmente a osservare una componente di inflazione persistente nel nostro prossimo futuro rispetto al nostro recente passato. Anche perché negli scorsi anni vedevamo un indice dei prezzi molto inferiore al 2% che non era certo fisiologico.



Questa inflazione potrà influire negativamente sui consumi e, quindi, sulla crescita?

Nell’ultimo trimestre del 2022 i consumi hanno registrato una lieve flessione, ma penso che quest’anno vi sia la possibilità di una loro tenuta per via di alcuni fattori positivi che si intravvedono. Innanzitutto, la fiducia di consumatori e imprese è in netta ripresa, poi il commercio estero continua a far registrare risultati soddisfacenti, infine c’è un segnale di risveglio molto significativo dell’attività manifatturiera, che l’anno scorso, in presenza dei rincari dell’energia e delle materie prime, era cresciuta poco, rimanendo sostanzialmente sui livelli del 2021.

Qual è questo segnale significativo sull’attività manifatturiera?

L’indice PMI di febbraio parla di una forte ripartenza. È un primo segnale, ma significativo, perché rispetto agli ultimi vent’anni sembra esserci un’industria italiana subito pronta a cogliere qualunque refolo di vento per poter di nuovo dispiegare le vele. Dopo la discesa dei prezzi energetici e delle materie prime, la produzione riprende sia per l’export, sia per ricostituire le scorte e cominciare le consegne.

La Bce sembra voler continuare a rialzare i tassi per fermare l’inflazione. Il Presidente di Confindustria Bonomi ha però chiesto all’Eurotower di ponderare le proprie scelte per non creare la condizioni per una recessione. Cosa ne pensa?

Le rappresentanze degli imprenditori legittimamente si preoccupano del futuro, ma dal punto di vista di un economista il discorso è molto delicato. Le banche centrali non possono mostrare le carte in anticipo, quindi francamente non perderei troppo tempo a immaginare cosa faranno. Quello che interessa di più è vedere dove va l’inflazione. Come ho detto poco fa, penso che la vedremo scendere mese dopo mese e probabilmente verso metà anno, in presenza di dati oggettivi, le banche centrali modificheranno il loro comportamento. Aspettiamo e vediamo.

C’è o no il rischio di una recessione?

L’unica cosa che potrebbe causare una recessione è un avvitamento imprevisto del conflitto russo-ucraino o una sua estensione in altre aree. In assenza di fatti così drammatici, il 2023 sarà un anno di transizione che non avrà risvolti così negativi per l’economia. Sarà di crescita non altissima, ma pur sempre crescita, a differenza di quel che dicevano le previsioni di fine 2022.

A proposito di previsioni, nell’arco di poche settimane abbiamo visto stime molto diverse tra loro su come andrà l’economia italiana quest’anno.

I cambiamenti che sono intervenuti nell’industria italiana sono tali da rendere obsoleta qualunque misurazione della crescita reale del nostro Paese degli ultimi anni, visto che stiamo parlando di un settore che rappresenta un quinto del Pil. Le produzioni che nel recente passato sono state spiazzate dalla Cina sono state sostituite da altre che valgono meno come quantità, ma portano più fatturato e valore aggiunto. È cambiato un mondo, ma sembra che nessuno, anche nel nostro Paese, se ne sia accorto. Attendiamo i prossimi dati reali, penso che vedremo qualcosa di interessante. E non dobbiamo dimenticare una carta importante che l’Italia ha a sua disposizione.

Quale?

Quella del Pnrr. È sufficiente che partano i cantieri ferroviari e già si potranno vedere effetti non indifferenti. Certo, ci sarà qualche Comune che sarà in ritardo, non tutto filerà liscio, ma stiamo avendo nei confronti delle risorse che ci sono state date un atteggiamento troppo pessimistico, ancora prima di vedere cosa accadrà. Anche dal Pnrr l’Italia, come del resto la Spagna, ha da raccogliere frutti.

Poco fa ha parlato dei cambiamenti che ci sono stati nell’industria italiana. Guardando alle decisioni europee sull’auto, c’è il rischio che presto questo settore possa non fornire più un apporto così importante al Pil?

Da una parte abbiamo obiettivi ambiziosissimi europei, ma dall’altra sembra che siano trascurati tutti i risvolti di transizione industriale oltre che ecologica che derivano da certe decisioni, che non riguardano solo l’automotive, ma anche altri settori: pensiamo, per esempio, al fatto che non si potranno vendere caldaie a gas. Stiamo parlando di qualcosa di veramente traumatico non solo per il sistema economico produttivo, ma anche per i portafogli delle famiglie.

Cosa intende dire?

Se andiamo a vedere quanto costa un’auto elettrica o quanto denaro occorre per ristrutturare un’abitazione per mettersi in regola con future normative sul riscaldamento, una famiglia dovrebbe raddoppiare il proprio reddito. L’asticella non viene, quindi, alzata solo nei confronti delle imprese, ma anche dei cittadini. Mi pare ci sia, come dire, un certo dilettantismo programmatico in tutto questo: gli obiettivi ideali che ci si sta ponendo non fanno i conti con la dura realtà di un’Europa in cui la popolazione è stata anche provata da crisi importanti negli ultimi dieci anni. Non si può, pertanto, pensare di infliggere un trauma di cambiamento così elevato nel prossimo decennio sia all’industria che alla popolazione. Credo che ci sarà prima o poi un ritorno con i piedi per terra, anche perché la Germania in questo momento è in grosse difficoltà dal punto di vista economico.

(Lorenzo Torrisi)

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