Quando nel 2003 Remo Ruffini rilevò il controllo di Moncler, l’azienda aveva alle spalle fallimento, rinascita e nuove delusioni. Nata nel 1952 a Monastier-de-Clermont, nei pressi di Grenoble, l’azienda, specializzata nelle attrezzature per gli sport invernali, era finita in disgrazia per poi riprendersi grazie al boom dei “paninari” che avevano adottato i piumini quale divisa ufficiale. Tramontata la moda, il declino sembrava irreversibile. Ma Ruffini, allora direttivo creativo dell’azienda, intuì le possibilità del marchio al punto da rilevarne il controllo dalla Mittel di Giovanni Bazoli, che aveva ereditato i cocci delle disavventure di Fin.part, la finanziaria di partecipazioni finita in fallimento.



Comincia così la storia di una straordinaria ascesa industriale e finanziaria: oggi Moncler vale in Borsa 11 miliardi circa, destinati senz’altro a salire nel caso si concretizzi l’interesse del colosso Kering, deciso a ripetere lo straordinario successo di Gucci.

È una case history emblematica: Ruffini, che di capitale ne aveva pochi, ha saputo mettere a profitto la business idea iniziale adattando lo spirito imprenditoriale alle dimensioni del mercato globale. Non si è barricato dietro il controllo del 51% come fanno molti colleghi imprenditori. Ma non si è nemmeno rifugiato dietro lo scudo di una banca di riferimento, né è andato alla ricerca di protezioni politiche. Ha avuto il coraggio di rivolgersi al mercato del venture capital e di ridurre la sua quota al 22% affidando la tenuta della sua leadership all’efficacia delle strategie adottate per creare valore per tutti i soci.



Il risultato è stato un successo mondiale, favorito da intuizioni geniali (lo sviluppo in parallelo di più linee in alternativa al lancio, sempre più oneroso, delle collezioni che durano una sola stagione) che oggi impone a Ruffini nuove scelte: o incassare (non poco) e restare alla guida dell’azienda alla corte di Francois Pinault. Oppure restare indipendente, magari stringendo accordi sul fronte del marketing e della distribuzione, sempre più impegnativa per far fronte alle esigenze della domanda. Di sicuro, la scelta non dipenderà da esigenze di campanile. O tantomeno dalle pressioni di politici che non hanno alcuna competenza o alcuna sincera volontà di accompagnare lo sviluppo di imprese che operano sui mercati.



Aziende che avrebbero bisogno di lavoratori preparati, cresciuti in scuole di livello internazionale, di sostegno alla ricerca e nel digitale, di un fisco non punitivo e di un’amministrazione all’onore del mondo. L’esatto opposto del procedere incerto, giorno per giorno, di un Paese ove la politica economica consiste ormai nel mettere cerotti a tante crisi aziendali che rischiano di essere l’anticamera di fallimenti costosi, figli dell’ostinazione a non guardare al futuro. Una politica ridicola che sforna gente come l’ex ministro dell’Interno che si lamenta perché ha scoperto che la Nutella usa nocciole turche. Cosa che avviene da anni, anzi decenni, perché la produzione italiana è insufficiente. E lo sarà sempre di più visto lo straordinario successo mondiale dei nuovi biscotti usciti dai laboratori del colosso piemontese che sta investendo sulla crescita mondiale.

Per fortuna ci sono (non poche) Moncler e Ferrero. Ma anche tante aziende che si affidano alla retorica del buon tempo antico, fatto di modelli di business cari all’ignoranza e all’incultura che spesso si trincera dietro la paura del nuovo. Come se Ruffini insistesse a produrre per i paninari di San Babila ormai vicini alla pensione invece che per i ragazzi di Shanghai che chiedono prodotti ben diversi. Manca il coraggio, insomma. Com’è comprensibile vista la congiuntura negativa, che ha cause internazionali ma anche profonde radici interne.

In Italia il clima di fiducia dei consumatori e delle imprese continua a calare, l’inflazione è prossima alla zero, gli investimenti sono in calo. Ma, come ha scritto Lucio Poma, responsabile scientifico di Nomisma, “in un quadro internazionale e nazionale a tinte così fosche, vi è una parte di imprese manifatturiere che stanno registrando performance di crescita straordinarie. La crescita zero del nostro Paese è effetto di una compensazione tra una parte del Paese che cresce a ritmi sostenuti ed una parte del Paese che rallenta quasi fino a crollare”.