La Commissione europea ha diffuso ieri le previsioni economiche d’autunno che parlano, con riguardo al nostro Paese, di una crescita del Pil dello 0,1% nel 2019 e dello 0,4% (contro la stima precedente dello 0,7%) nel 2020. L’Italia sarà quindi “fanalino di coda” in Europa sia quest’anno che il prossimo, con un divario crescente, visto che se nel 2019 ci sono 0,3 punti a separarla dalla penultima Germania, nel 2020 diventeranno 0,6, con l’economia tedesca ancora penultima. “L’economia italiana è in stallo dall’inizio del 2018 e ancora non mostra segnali significativi di ripresa”, è quanto mette nero su bianco Bruxelles. Abbiamo chiesto un commento a Luigi Campiglio, Professore di Economia politica all’Università Cattolica di Milano.
Professore, che idea si è fatto vedendo i dati contenuti nelle previsioni della Commissione?
Che a questo punto non abbiamo tanto un problema grave di disavanzo. Quello che è veramente preoccupante è il rallentamento accentuato dell’economia, che rispecchia una diminuzione della sua competitività e vitalità. Chiaramente non per tutti i settori e probabilmente molto differenziata tra Nord, Centro e Sud. Purtroppo i segni di debolezza visibili da qualche tempo dal livello micro delle grandi imprese si stanno trasferendo, se non lo hanno già fatto, al livello macroeconomico. Questa difficoltà economica può crearci altri problemi, perché con tassi di crescita così deboli anche contenere il disavanzo e ridurre il debito pubblico diventa più complicato.
Dai dati sembra si possa trarre un’altra indicazione: se per il risultato di quest’anno si può parlare dell’effetto del rallentamento internazionale e della crisi della Germania, ciò non sembra valere per l’anno prossimo, visto che gli altri paesi cresceranno almeno dell’1%.
Aggiungo che in un contesto così anemico, o forse a causa di esso, l’Italia registra un avanzo di partite correnti vicino al 3%. Se non ci fosse saremmo veramente in ginocchio. Le imprese che lavorano sull’export prevalentemente sono competitive, ma non riescono da sole, pur essendo dinamiche, a tenere in piedi l’economia. Quindi abbiamo un problema che perdura ormai nel tempo di stagnazione interna del Paese. Anche nella vicenda dell’ex Ilva è possibile che oltre alla crisi del mercato internazionale dell’acciaio, sulle decisioni di Arcelor Mittal pesi anche una caduta della domanda interna.
Qual è la causa di questa situazione?
Ogni due per tre abbiamo notizie di una situazione precaria del Paese sul piano delle infrastrutture, degli investimenti pubblici. È anni ormai che ne parliamo, solo che adesso i nodi vengono al pettine. Abbiamo una rete di infrastrutture economiche che fondamentalmente richiedono un intervento pubblico, perché si stanno deteriorando in modo ancora più rapido di quanto si temesse. Il punto è che la politica che governa il settore pubblico non muove gli investimenti che potrebbero dare fiato all’economia e un respiro anche alle imprese che lavorano prevalentemente per il mercato interno.
È come se fossimo di fronte a un circolo vizioso – bassa domanda che crea difficoltà alle imprese, che a loro volta diminuiscono i posti di lavoro, incidendo negativamente sulla domanda – che si può spezzare con gli investimenti pubblici?
Sì, so che questa è una proposizione che non piace a molti, perché di sicuro arriveranno dei “gentili” (visto il cambio di governo che c’è stato) suggerimenti mirati a riorganizzare la spesa pubblica, a ridurla, a congelarla per fare in modo che le cose migliorino. Purtroppo non funziona così. Si rischia di creare un deserto e chiamarlo anche economia che si sviluppa. Ormai sono 11 anni che andiamo avanti con questa linea e siamo qui a vedere che abbiamo fatto grandi manovre, abbiamo osservato i patti sottoscritti, ma questo non ci dà la spinta per la crescita. Occorre cercare le cause di questa situazione, altrimenti ho il timore che non se ne verrà più fuori. Abbiamo bisogno di investimenti pubblici. Spero chi si arrivi alla cosiddetta golden rule per non conteggiarli nel disavanzo, almeno per un certo periodo di tempo.
Perché gli altri paesi anche l’anno prossimo andranno meglio di noi? Perché fanno questi investimenti pubblici?
I paesi dell’est sono agganciati all’economia tedesca e sembra riusciranno a resistere al momentaneo (visto che l’anno prossimo tornerà al +1%) rallentamento della Germania. È interessante il caso della Francia, che ha un disavanzo pubblico che ha le stesse caratteristiche di quello italiano. Senonché il nazionalismo francese, che viene criticato, è il padre di politiche di sostegno industriale, che in questa fase consentono al Paese di tenere. Basti pensare a quanto accade nell’industria automobilistica. La Francia è quindi lì a testimoniare, con il suo disavanzo in linea con il nostro, che la spesa pubblica con investimenti sul capitale umano e sulla politica industriale ha reso.
Quindi, al di là delle polemiche che stanno precedendo il suo iter parlamentare, quel che manca veramente nella Legge di bilancio sono gli investimenti pubblici?
Secondo me sì. Servono investimenti pubblici specie nei settori innovativi. Noi abbiamo bisogno di diffondere innovazione, di fare in modo che i giovani, spesso qualificati, non scappino all’estero. Non c’è in Italia un sistema di attività economiche abbastanza robusto da avere bisogno di giovani, mentre in Francia, in Germania e altrove sì. Questo è il momento in cui avremmo bisogno di un intervento pubblico di investimenti certamente in infrastrutture perché danno lavoro, ma anche e soprattutto in ricerca, in innovazione.
(Lorenzo Torrisi)