Eurostat ha diffuso ieri i dati sul Pil dell’Eurozona nel secondo trimestre, dai quali emerge che, nonostante un complessivo +0,3% su base trimestrale, dopo la Germania, sono entrate in recessione tecnica anche Estonia e Olanda. Secondo Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, «il quadro generale è di rallentamento e se si vuole comprendere il dato di alcuni Paesi, non solo l’Olanda (-0,3% congiunturale), ma anche l’Austria (-0,4%) o l’Ungheria (-0,3%), è sufficiente considerare la situazione della Germania».
Dunque il dato europeo non proprio brillante si spiega con la dinamica dell’economia tedesca?
In gran parte è così. Del resto la Germania sta risentendo della situazione cinese, dove oltre a un problema del settore immobiliare è emersa una frenata dell’economia. Quello che personalmente mi colpisce di questo rallentamento brusco dell’Eurozona è che è in contrasto con una situazione americana di crescita.
Come si spiega questa divergenza tra le due sponde dell’Atlantico?
Principalmente con il fatto che gli Stati Uniti hanno una base produttiva molto robusta e diversificata e un mercato che è stato sostenuto in modo importante sul piano della politica fiscale. Non altrettanto o non nella misura adeguata è avvenuto in Europa, per non dire a livello italiano, dove pure avremmo un tesoretto importante rappresentato dal Pnrr.
Lei ha parlato di brusco rallentamento dell’Eurozona, ma c’è chi potrebbe far notare che c’è comunque il segno più…
Il fatto che l’Eurozona nel suo complesso registri un Pil in rialzo potrebbe anche giustificare un altro aumento dei tassi da parte della Bce. Negli Usa, però, dove pure i tassi sono più alti, c’è un’economia più resiliente di quella europea, che risente di problemi legati sia alla struttura produttiva che del mix di politica monetaria e fiscale. Il punto è che mentre parlare di politica fiscale degli Stati Uniti è assolutamente normale, si fa molta fatica a farlo con riguardo all’Europa.
Se la Germania è il Paese più in difficoltà dal punto di vista economico, non dovrebbe essere quello con più interesse a cambiare il mix di politica monetaria e fiscale?
La storia conta e disavanzo e inflazione hanno segnato nel secolo scorso la Germania in maniera così forte che ancora oggi per i tedeschi risulta importante conseguire, anche in un momento di crisi, il pareggio di bilancio. La Germania da tutti i punti di vista è comunque un Paese forte e robusto, solo che la situazione internazionale, considerando anche quanto fosse importante l’energia sicura e a basso costo conseguita tramite le forniture russe, al momento le sta creando grandi difficoltà.
Se gli Stati Uniti hanno subito il downgrade da parte di Fitch dobbiamo aspettarci una mossa di questo tipo anche in Europa?
Le valutazioni delle agenzie di rating sono spesso a metà strada tra l’economico e il politico. Nel caso degli Stati Uniti, dato che si stanno avvicinando le presidenziali e vi è incertezza su chi sarà il candidato repubblicano e sulla chance di una riconferma di Biden, è stata fatta una valutazione più attenta del debito pubblico. Il downgrade è, quindi, arrivato per ragioni più politiche che economiche. Non si può escludere che le agenzie di rating possano valutare di operare un downgrade anche in Europa. Di certo, però, visto il livello debito/Pil, in cima alla lista non ci sarebbero la Germania o l’Olanda, che pure sono in recessione tecnica, ma nemmeno la Spagna, il Portogallo o la Grecia, bensì l’Italia.
(Lorenzo Torrisi)
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