Il governo prova a modificare le norme rigide sulla legittima difesa: “C’è la volontà di migliorare la legge – ha detto il ministro Bonafede -. Al Senato sono depositati otto testi di nuovi articoli, e M5s e Lega stanno lavorando per un testo equilibrato”. Intanto, da venerdì 14 settembre, in Italia è più facile possedere un’arma da fuoco. È stato infatti pubblicato il decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 104, che raddoppia da 6 a 12 la gamma dei modelli detenibili; aumenta il numero di proiettili consentiti; permette di denunciare la disponibilità semplicemente via mail; esonera dall’obbligo di informare i conviventi maggiorenni sulla presenza in casa delle armi. L’Italia è così il primo Paese Ue a recepire la direttiva 853 del 2017, adottando un sistema a maglie larghe, anzi – per i detrattori del provvedimento – troppo larghe? È davvero così? E non c’è il pericolo che questo allargamento stimoli un senso comune da Far West? Non si corre il rischio di far aumentare i casi di omicidio da risse o litigi che degenerano, anche per sfoghi passionali? La sicurezza generale è messa a repentaglio? Lo abbiamo chiesto a Maurizio Fiasco, sociologo specializzato in ricerca e formazione in tema di sicurezza pubblica.



L’Italia è il primo Paese ad adottare la direttiva Ue sulla detenzione di armi da fuoco, con la possibilità di ricomprendere anche quelle di derivazione militare, come il kalashnikov o l’Ar15, usato in molte stragi tra civili negli Usa. Non è una “liberalizzazione” eccessiva e pericolosa?

Ma davvero, dopo il recepimento della direttiva europea, sarà possibile qualificare fucili automatici dalla portata di 3-4 chilometri, ad esempio i kalashnikov, come armi sportive o collezionistiche? Affermarlo è un’esagerazione, che per contro nasconde il pericolo reale.



E quale sarebbe?

L’alterazione perversa dell’esprit des lois. Ogni norma penale e amministrativa associa a un dispositivo un messaggio etico-istituzionale. Aprendo la valvola che fa uscire messaggi sommari e beceri, si oscura proprio il valore pubblico della norma. Non è infatti per mera esigenza burocratica che su tutta la materia delle armi vige nel nostro Paese la sorveglianza ferrea dell’autorità di pubblica sicurezza. Tanto per la detenzione a fini sportivi e venatori quanto per la difesa personale. Ma è accaduto spesso che allo scattare di un allarme sociale si siano inasprite le verifiche sulle armi e sulle autorizzazioni legali. Operazione più semplice che attuare un programma complesso di contrasto pragmatico alle centinaia di migliaia di esemplari di armi detenute illegalmente o del mercato clandestino, del contrabbando e della malavita. E così, come accade in tanti campi, si rendono più onerosi i controlli sui “già controllati”, e salgono i costi per osservare le regole da parte di chi rispetta in pieno e con scrupolo le regole. Eppure esercitare la funzione normativa richiede una competenza organizzativa raffinata: evitando – con il sovrapporsi di regole su regole – di penalizzare coloro che rispettano la legge. Il vero problema è perseguire gli inosservanti. Se a ogni turbamento dell’opinione pubblica si provvede solo a revisionare gli elenchi dei nominativi, si evita il focus della questione.



Cosa c’è davvero in ballo?

La modalità con cui vengono detenute le armi, il rispetto delle prescrizioni per chi è autorizzato non solo a conservare, ma anche a portare le armi con sé. E sono prescrizioni pratiche, a partire dal distanziamento dell’arma dai luoghi dove nella quotidianità possono sorgere delle discussioni o dei conflitti.

Che cosa intende dire?

L’arma non è solo uno “strumento”, un oggetto neutro: poiché sprigiona di per sé una tremenda forza comunicativa. Nelle circostanze anche dei più banali conflitti, la presenza di un’arma da fuoco è un catalizzatore dei processi mentali di scontro, rende ingestibile i moti di risentimento. L’arma, proprio come dispositivo di immediata traduzione dell’impulso, supera gli ostacoli dell’entrata in funzione del nostro apparato mentale, cognitivo. Spinge a passare all’azione prima che la coscienza abbia il tempo di allontanare o controllare l’aggressività. Ecco perché, dal punto di vista della razionalità dei dispositivi, consentire di aumentare il numero delle armi sportive detenute è un brutto messaggio, un segnale ambiguo e fuorviante.

In che senso?

Può far lasciar intendere che la sicurezza non sia più di tanto un monopolio imprescindibile dello Stato. Eppure nel nostro ordinamento la sicurezza personale è “pubblica”, ovvero non può essere in alcun modo vicariata. È un bene pubblico di monopolio dello Stato. Nei Paesi di tradizione giuridica latina, ovvero che prende le mosse dal Diritto Romano, il dispositivo della legittima difesa è immutabile. E l’uso delle armi da parte delle stesse forze di polizia è legittimo solo in alcune, limitate e precise circostanze. La “riforma” della legittima difesa, alla fine, si risolverà nello sporcare le parole del testo della norma, che risulterà meno comprensibile, pur non cambiando affatto. È così dal VI secolo, dal Codice di Giustiniano. E non potrà mutare, almeno negli Stati al di qua dell’Atlantico. Negli Stati Uniti, dove il monopolio della sicurezza e della forza da parte dello Stato si è affermato molto tardi, dopo la guerra civile americana, la sicurezza è ancora un diritto soggettivo del cittadino, che la Costituzione, con il secondo emendamento, sancisce con il libero possesso e porto delle armi.

Da noi non è così?  

No. Tant’è vero che non è nemmeno possibile acquistare sul mercato servizi di scorta, di tutela armata dell’incolumità personale. Il fatto che a tanti Vip siano “tollerati” l’acquisto di prestazioni simili fornite da società private o da singoli privati, non significa che la norma sia cambiata. Il cittadino sul mercato può acquistare solo servizi di tutela di beni patrimoniali, peraltro specificando in contratto firmato quali siano i beni e in quali circostanze ci si avvale della vigilanza privata. Da tutta questa confusione di messaggi, dal dilagare di terminologie ambigue deriveranno, come peraltro già avviene, danni seri, che gli italiani pagheranno con un conto umano e materiale salatissimo.

A quali ambiguità si riferisce?

Prendiamo il principio della proporzionalità tra difesa e offesa. L’esonero della responsabilità nel recare offesa fisica a una persona è applicabile solo quando ci si risolva a ciò per evitare una pari o superiore offesa a individui innocenti. Parliamo della minaccia incombente sulla vita e sulla salute, non sulla proprietà. A meno che per sottrarre un bene materiale sia minacciata l’integrità di un uomo o di una donna. È il caso della rapina a mano armata, in cui per sottrarre un bene patrimoniale il malvivente minaccia la vita. Nel corso di un furto dentro l’abitazione, qualora il ladro non agisca con modalità effettive ed evidenti di minaccia all’incolumità personale, nessuno potrà reagire assestandogli una sorta di punizione corporale, dalla ferita all’uccisione con armi da fuoco. Ed è ovvio che il giudice sentenzierà di conseguenza. Voglio ricordare che così stava scritto persino nel Codice penale di Alfredo Rocco, ministro di Grazia e giustizia nel ventennio fascista.

Con il recepimento della direttiva europea, dunque si potrà aumentare il numero e ampliare i modelli di armi da custodire in casa, ma con “regole d’ingaggio”, chiamiamole così, invariate?

Esattamente, non c’è alcun cambiamento. I casi di legittima difesa non diventano più ampi rispetto a prima. Il dispositivo materiale della norma – che nelle polemiche di queste settimane è scorrettamente accostata alla Direttive UE sulle armi – rimane quello precedente: rigido.

Mentre Lega e M5s pensano di cambiare la legge sulla legittima difesa, il ministro Giulia Bongiorno ha dichiarato: “E’ giusto sparare a chi entra in casa”. Che ne pensa?

È singolare che un ministro della Funzione pubblica estenda il suo ambito di competenze, passando dalle materie di “riforma burocratica” a questioni di rango costituzionale. Ovvero che un giurista raffinato ricorra al linguaggio “non tecnico”, con evidenti rischi di distorsione, pronunciandosi “televisivamente” su temi delicatissimi e dalle conseguenze davvero imprevedibili.

Torniamo agli aspetti “procedurali” della direttiva Ue sulle armi, che consente anche ai semplici iscritti ai poligoni privati di detenere un’arma in casa…

Attenzione, iscritti non a “poligoni privati”, ma abilitati dal Tiro a Segno Nazionale, che è un ente pubblico, con doppia dipendenza: dal Coni e dal ministero della Difesa! Requisito che è riconosciuto a chi supera un esame elementare di conoscenza delle procedure, di idoneità, che va certificata. Ci si allarma perché la denuncia di detenzione può essere inoltrata via mail. È un falso problema, mentre si procede alla digitalizzazione della Pa, e la Posta elettronica certificata ha valore legale. Cosa cambia se invece di consegnare un fascicolo di carte, si provvede con invio telematico?

Ha fatto molto discutere la possibilità di ottenere il certificato per l’idoneità da medici in quiescenza o in congedo, come già succede per il rinnovo della patente. Non c’è il rischio di abusi o di permessi facili?

Su questa prassi deve esserci un sistema di sorveglianza vero. Anche adesso il medico che certifichi l’idoneità alla patente, come accade nelle autoscuole, senza seguire scrupolosamente le procedure, incorrerebbe in una responsabilità penale piuttosto seria. Perché sta svolgendo una funzione pubblica.

In questo caso, visto che parliamo di armi, chi dovrebbe assumersi il compito di sorvegliare?

La potestà rimane in capo sempre all’autorità di pubblica sicurezza, cioè al questore.

Come?

Dovrebbe essere emanata, secondo me, una direttiva ministeriale, dal Dipartimento di pubblica sicurezza, dove siano stabiliti i requisiti minimi dell’organizzazione del servizio di monitoraggio. Con una misura di tipo strutturale, che perfezioni tutto l’apparato delle questure e dell’Arma dei carabinieri per conseguire uno standard elevato di qualità dei controlli. Ecco, più che controlli formali di rito, meglio privilegiare quelli effettivi, stringenti quanto è necessario, anche a seguito del recepimento della direttiva Ue.

Nella nuova normativa non c’è l’obbligo di informare i conviventi che si detiene un’arma. In un Paese dove gli omicidi calano, ma non quelli a seguito a risse o liti, anche tra le mura di casa e per motivi passionali, non sarebbe stato più opportuno varare una misura più restrittiva?

Questo, in effetti, è il punto dolente. Informare il convivente, visto che l’arma di per sé costituisce un incremento del rischio in famiglia, è doveroso. Anzi va reso obbligatorio il coinvolgimento dei conviventi nel rispetto rigoroso delle procedure. Le norme di custodia delle armi in casa sono piuttosto rigide, ma spesso non vengono osservate. L’assenza di tale obbligo è motivo di profonda preoccupazione.

Si può ovviare all’errore?

Anche immediatamente: con nome prescrittive da emanarsi in via amministrativa da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. Un semplice e fondamentale riequilibrio del rischio, da ottenere ricorrendo al Diritto di polizia.

Con queste nuove regole c’è un rischio Far West, una sorta di “americanizzazione” della sicurezza?

Va mantenuta la severità nella procedura del porto d’armi. L’autorizzazione a girare armati è altra cosa rispetto alla disponibilità in un domicilio. Tant’è che per spostare l’arma da una sede a un altra va richiesta un’autorizzazione, che varrà solo nel tal giorno, alla tal ora e lungo il tal tragitto chiaramente specificato. Sulla licenza di porto d’armi per difesa personale, per consuetudine, le autorità di pubblica sicurezza sono molto attente a valutare se ricorrono i motivi per l’autorizzazione. Parliamo di una licenza, perciò c’è una discrezionalità. Non è un diritto soggettivo. È un’autorizzazione con decreto motivato: il questore la può dare solo dopo aver accertato le motivazioni. Il rischio – e torniamo all’inizio – si presenta nel pervertimento dello spirito delle leggi. Ma la procedura rimane molto rigorosa. E noi tutti, italiani, dovremmo essere gelosi e persino fieri di questo assetto giuridico così disciplinato. Se l’anno scorso in Italia il numero di omicidi volontari non ha superato i 355 casi, cioè un quinto rispetto a 18 anni fa, una ragione ci sarà stata. E tenga conto che questa riduzione della conflittualità omicidiaria è avvenuta durante una crisi economica pesante, che perdura da dieci anni. Una smentita ai paradigmi classici della criminologia.

(Marco Biscella)