Giorni fa la CGIA di Mestre ci ha informato che a breve, circa un paio di anni, il numero complessivo di lavoratori attivi nel nostro Paese sarà per la prima volta superato dal numero complessivo di pensionati. Circa 23 milioni di pensionati a fronte di un ugual numero di lavoratori attivi. Nel novero sono considerati sia dipendenti che automi e tiene conto, la previsione, anche dell’incremento di lavoratori attivi registrato in questo biennio. Il fatto è che la curva demografica parla chiaro. Nonostante il lavoro degli immigrati, anche essi ovviamente considerati, la denatalità degli scorsi decenni produce un effetto di spopolamento del ceto produttivo che si assottiglia sempre più nei numeri.



Il saldo negativo tra lavoratori e pensionati è un fenomeno sino ad oggi squisitamente meridionale. Lecce e Napoli sono le province con il maggior differenziale a favore dei pensionati ma il fatto nuovo, e per certi versi allarmante, è che ora che il settentrione si troverà nella medesima condizione.

La questione ha due risvolti. Il primo è la penuria di risorse umane che avremo a breve per soppiantare chi andrà in pensione. Centinaia di migliaia di lavoratori andranno in pensione nei prossimi tre anni in ruoli anche di grande importanza per il funzionamento del Paese. Medici, insegnanti, tecnici saranno merce rara, vista anche la diversa propensione dei giovani alle professioni più tradizionali. I lavoratori di grande esperienza e competenza che mancheranno metteranno in crisi intere aree produttive se non si troverà una soluzione.



Altro aspetto è l’equilibrio complessivo del sistema pensionistico. Il fatto che i lavoratori attivi siano pari ai pensionati comporterà che la previdenza si reggerà su meno risorse umane e quindi su di un minor numero di soggetti che, con i loro contributi, pagheranno pensioni di chi va in quiescenza.

Cosa fare quindi? In termini assoluti l’unica via percorribile, sul piano della sostenibilità economica del sistema previdenziale, ha due linee guida. Incrementare gli introiti e ridurre le prestazioni. La strada che già ora si sta seguendo, sia pure in sordina. I recenti incrementi dei contratti di lavoro del settore pubblico e privato, infatti, aumentano la base di calcolo delle trattenute previdenziali in modo sensibile, facendo sì che a parità di numero di addetti il prelievo dei contributi, calcolato sulla retribuzione, si incrementi. Per altro verso è ormai prassi dei governi, tutti compreso l’attuale, di non concedere più alcun adeguamento alle pensioni superiori alla minima. Così facendo il valore nominale della prestazione resta immutato negli anni e, per effetto dell’inflazione, si riduce in modo sensibile in termini reali.



Ma potrebbe non bastare. È di alcun giorni fa la proposta di trattenere i dipendenti pubblici al lavoro anche dopo i 70 anni anni su base volontaria, proprio per evitare che il fenomeno abbia una portata devastante, mutuando quanto già accade in alcuni settori privati. La molla è un maggior introito rispetto alla pensione oltre che un incremento della stessa se il rapporto di lavoro si protrae.

Sul piano sociale tutto questo ha però dei riflessi complicati da evitare. Il livello delle prestazioni e di innovazione che serve per le sfide competitive dei prossimi anni è custodito nelle nuove generazioni, che faticano a trovare, anche in un contesto come quello descritto, una propria collocazione ottimale in termini di utilizzazione delle competenze acquisite negli studi. Problema che ha da decenni obbligato molti ragazzi a lasciare il Mezzogiorno, proprio per la scarsa offerta del mercato del lavoro, unita alla sclerotica immobilità del sistema. Se il fenomeno colpisse l’intero Paese sarebbe una catastrofe. Carriere lavorative più lunghe, sopratutto nella pubblica amministrazione, portano con sé anche un carico di immobilismo che non è cosa buona.

Ora che la penuria di lavoratori si farà sentire, si dovrà per forza di cose creare percorsi di maggiore appetibilità per tenere le risorse migliori. Il che vuol dire, nella sostanza, prevedere per i prossimi anni un rilevante incremento delle retribuzioni soprattutto per i giovani, in modo da invogliarli ad entrare prima possibile nel mondo del lavoro e dare quindi un contributo al sistema Paese. Questi incrementi del costo del lavoro potranno essere sostenuti solo se aumenterà la produttività individuale e di sistema, in modo da avere maggiore ricchezza disponibile da distribuire. In sostanza, innovare i processi produttivi e aumentare la produttività utilizzando proprio le competenze fresche da innestare nel mondo del lavoro, garantendo retribuzioni più elevate sin dai primi impieghi.

Solo così avremo una maggiore base di lavoratori ben pagati e capaci di contribuire al sistema pensionistico. Diversamente il sistema farà fatica a tenersi in piedi e scivolerà, rapidamente, verso una drastica riduzione delle prestazioni pensionistiche. La sfida è sempre quella, far bene e meglio degli altri per poter difendere le conquiste di chi ci ha preceduti. E farne di nuove, se capaci.

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