Della testimonianza offerta ieri, in apertura del Meeting, dal frate francescano, ora patriarca di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, bisognerebbe vietare per decreto, a ciascuno di coloro che l’hanno ascoltato a Rimini o – è lo stesso – ne udranno le parole dal 31esimo minuto circa premendo qui (e bisogna assolutamente farlo), di separare due momenti. Quello della sua fede, proprio di lui, una cosa personale; e quello del giudizio storico sulla guerra a Gaza e in Medio Oriente, e su quel che si può fare noi, oggi. Non è stata una lezione sul cristianesimo, ma “esercizio del cristianesimo”, un’esperienza in atto dell’eterno che entra nel tempo.
Pizzaballa non usa la fede per relativizzare la tragedia, non passa al pubblico la pasticca della speranzella anestetica, né istilla una visione rasserenante del prato verde che verrà. Anzi. Nel tremito calmo della sua voce è dato percepire insieme la tragedia e la sfolgorante bellezza – attuale, non mitica – della resurrezione di Gesù Cristo. Senza questa resurrezione, al diavolo la sapienza evangelica. Non gli interessa, non interessa, non è utile. La Persona risorta che lui ha incontrato rende quest’uomo credente quasi luminoso. Niente di magico o paranormale. Cristo risorto è reale, e questa presenza, che costituisce l’essenziale di ogni giorno della sua vita, lo rende come fluorescente: non di suo, ma di un Altro. Quando lo applaudono mentre sale sul palco, e l’ovazione sale a ogni gradino, dice con dolcezza: “Basta”, non è lui ma Lui a contare.
La ragazza ebrea e il giovane frate
Da giovane frate – racconta – arrivò trentacinque anni fa a Gerusalemme, con la sua bella fede bergamasca, e tutte le risposte – peraltro vere – apprese dal catechismo e dalla teologia. Quando si ritrovò all’Università ebraica, unico cristiano tra studenti ebrei al corso di Sacra Scrittura, si accorse che le sue risposte su Gesù erano buone per chi già masticava il cattolicesimo, ma non dicevano nulla, risultavano incomprensibili ai compagni israeliti. Allora propose di leggere insieme il vangelo una sera la settimana. Finché una ragazza ebrea, di cui è tuttora amico, gli chiese di rispondere a una domanda, una sola. Va bene, Gesù è stato una personalità affascinante, il Vangelo è bellissimo e importantissimo, non trovo alcun elemento problematico nelle sue pagine, “ma la resurrezione? mi spieghi perché lo dovete far risorgere?”. Il bravo e brillante teologo spiegò per bene il diritto e il rovescio di questa faccenda, ma la faccia di lei diceva: non capisco. Grazie a questo incontro e a questo dialogo interreligioso (in realtà totalmente concreto e umano) Fra Pierbattista riconobbe la resurrezione come fondamento della sua fede. La resurrezione non si spiega, si incontra. L’incontro con la Persona di Cristo risorto, questo c’è nel vangelo, dove non c’è scritto nulla di come avvenne. Questo è quel che si portano dietro i cristiani. Ma forse non si portano più addosso questo fatto, o se ne sono dimenticati: Cristo risorto, l’unica cosa che conta. Dio non solo si è incarnato ed è morto per noi, ma è risorto. Qui sta la sorgente della speranza. Speranza contro ogni speranza.
Nessuna filosofia consolatoria
In tutto quanto il Patriarca ha detto, dice e dirà, non c’è stata, non c’è e non ci sarà infatti alcuna concessione al sollievo della speranza come idea sgorgante da una filosofia benevola e cristiana della storia. Quella è una verità astratta, dottrinaria: giusta ma esistenzialmente lontana. Persino tradita nella quotidianità della vita.
Questo è stato il frutto della guerra, di questa guerra esplosa il 7 ottobre e che continua. Essa è stata ed è tuttora sequenza mai prima accaduta di atrocità militari, ma soprattutto ha aperto una ferita gravissima nella quotidianità. Oggi la terribilità della situazione si misura non solo nel numero dei morti, e nel grido disperato di Gaza e dei parenti degli ostaggi, ma nel “rancore, odio, giustizia intesa come vendetta, sfiducia, rifiuto dell’esistenza dell’altro” che oggi pervade in modo totale i rapporti tra le comunità e nel seno stesso delle comunità. Persino i leader religiosi, “almeno pubblicamente” – confessa il cardinale – non si parlano, non ci sono rapporti istituzionali, non c’è alcuno spiraglio che si possa intravedere. Gli stessi che hanno scritto insieme documenti stupendi sulla fraternità (un tesoro da non gettare via) adesso hanno spezzato i legami, dice, con la voce frantumata dal dolore, il porporato.
Il dialogo spezzato
Non è di una sapienza dei libri e dei documenti quella di cui ha bisogno per essere guarita la carne sanguinante dei popoli della Terra Santa trafitti dalla guerra, ma di una presenza che faccia trasparire e comunichi l’esperienza ciascuno della propria fede. Invece ognuno accetta solo la propria narrazione della sofferenza e dell’ingiustizia. E di quella degli altri non ne vuole sapere, anzi la nega. Dice: quando la guerra finirà, perché finirà, come si potrà ricostruire qualcosa? La forza del dialogo tra fedi diverse però non più a livello di leader, ma tra comunità, nella base, nelle cose. Ma perché questo sia possibile in futuro, adesso che non si riesce più neppure a parlare, occorre essere presenti: “bisogna esserci”. A chi ti domanda dov’eri, dovrai poter dire: eravamo lì.
Al Patriarca francescano importa poco che l’ultimo giorno, quando verrà, allora sarà la pace. Non è questo il suo cristianesimo, gli interessa l’adesso, il tempo della storia. Nella concretezza delle complicazioni. Oggi nella sua comunità, che si estende per quattro nazioni (Giordania, Israele, Palestina, Cipro), ci sono cattolici palestinesi a Gaza e cattolici che svolgono servizio militare nell’esercito israeliano. Quello che propone è di non rinunciare all’appartenenza al proprio popolo, ma di ricordarsi anche (si noti l’umiltà di questo anche) di Cristo. Di provare a imparare da Lui.
Le tre tentazioni
Che cosa vuol dire? La tentazione dei cristiani è la stessa degli apostoli nel Getsemani. C’era chi dormiva, chi è fuggito, chi ha preso la spada. I primi sono quelli che si rifugiano in un “devozionismo sofisticato”, fatto di liturgia, sacramenti, e nessun giudizio né opera; poi c’è chi scappa lontano; infine chi si butta nella lotta politica. Cristo quella notte lottò sì (agonia), ma la intese come il suo “consegnarsi, che non vuol dire arrendersi, ma affidare la propria vita a Dio, avere fiducia in Lui”. Confida: “A questo sto cercando di condurre la mia comunità: non abbiamo la risposta a queste situazioni, ma abbiamo l’indirizzo dove inviare le nostre domande, ed è Colui che dà senso a tutto quello che facciamo”. Non si preoccupa del fatto “che la comunità cristiana sia irrilevante politicamente, non abbiamo la pretesa di avere per forza un ruolo dentro queste situazioni”. Usa una parola neutra: situazioni. Ogni parola è difficile, può trafiggere o farti trafiggere. “I nostri seicento parrocchiani di Gaza sono solidali con tutti, aiutano tutti. E cerchiamo di praticare la parresia: dire una parola di verità, senza diventare parte di uno scontro”.
Il Cardinale è perfettamente al corrente di quel che sta accadendo nelle sedi negoziali. “L’unica cosa che possiamo fare è pregare, perché si raggiunga ora la tregua. Perché questo è il momento decisivo, dirimente”. Di certo quello che sta passando è “l’ultimo treno”. In questi giorni, in queste ore o sarà “tregua” o sarà “la degenerazione del conflitto”. E si capisce che solo la preghiera potrà deviare da quel che è il peggio. Ma poi comunque sia, alla fine, la guerra dovrà finire. E il compito intanto è essere presenti, esserci, cercando di dire e fare come Cristo, perdonare, ascoltare, portare pesi, pregare.
C’è infine una domanda tremenda, posta dal presidente del Meeting, Bernard Scholz: “C’è una risposta al dolore innocente, allo strazio dei bambini di Gaza, che patiscono fame e sete, sono orfani e soli?”. Passano quattro secondi e mezzo. Risposta: “No”. Aggiunge: “La nostra fede non è una panacea di tutti i mali, essa porta con sé un elemento di tragicità. Certo non possiamo dare la colpa a Dio della malvagità dell’uomo, ma non abbiamo risposta al perché accada questo. La fede non fornisce tutte le risposte, essa è una relazione dentro la quale tutte le domande hanno spazio. E restando dentro questa domanda, si tratta di fare il possibile per bilanciare questa sofferenza con gesti di amore”.
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