La terapia con plasma convalescente è tutt’altro che inefficace contro il Covid. A difenderla è il medico che con Giuseppe De Donno avviò questo tipo di cura, cioè il professor Massimo Franchini, direttore del Servizio trasfusionale dell’ASST Mantova. Lo fa in uno studio pubblicato a settembre su Multidisciplinary Digital Publishing Institute e condotto insieme a Fabiana Corsini dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, Daniele Focosi dell’ospedale Santorso di Vicenza e Mario Cruciani del Centro Nazionale Sangue. Questa terapia «sembrava essere efficace nell’aumentare la clearance (eliminazione, ndr) virale rispetto alla terapia standard, in particolare entro i primi tre giorni dalla trasfusione» di plasma convalescente. Inoltre, non è aumentato il rischio di eventi avversi, «confermando la sicurezza di questa procedura». Il problema è che a causa dell’emergenza Covid sono stati condotti studi diversi che hanno dato risultati eterogenei, fornendo un quadro incerto e mutevole. Lo sottolineano gli stessi ricercatori italiani che evidenziano le tre generazioni di sperimentazioni.



PLASMA CONTRO COVID, LE SPERIMENTAZIONI

I primi studi clinici, condotti all’inizio della prima ondata pandemica, hanno utilizzato plasma convalescente con anticorpi neutralizzanti anti-SARS-CoV-2 ad alto titolo, solitamente in pazienti ricoverati con una forma grave di Covid. Poi è apparso evidente, in virtù della capacità del plasma di bloccare la replicazione virale, che doveva essere usato prima per evitare la progressione della malattia. Gli studi clinici di seconda generazione, dunque, si sono concentrati sull’uso di plasma convalescente ad alto titolo nelle prime fasi del decorso della malattia, quindi entro 3 giorni dall’inizio dei sintomi o dal ricovero. Per ottimizzare gli effetti benefici, gli studi più recenti stanno valutando l’infusione in pazienti ad alto rischio, come immunocompressi, malati Onco-ematologici e soggetti con gravi comorbidità cardiovascolari e respiratorie. «Sulla base di quanto sopra, è evidente che gli studi clinici condotti durante i 18 mesi di pandemia COVID-19 sono ampiamente eterogenei in termini di disegno dello studio e programma di somministrazione del CP, caratteristiche della malattia e dei pazienti», osservano i ricercatori. Per questo le revisioni sistematiche e le meta-analisi hanno prodotto risultati eterogenei, comprensibile in un contesto «estremamente incerto e mutevole, tipico delle situazioni di emergenza come quelle della pandemia COVID-19».



PLASMA CONVALESCENTE, CAOS PER STUDI ETEROGENEI

Ma così «è quasi impossibile valutare l’eterogeneità clinica degli studi primari, legata a diverse condizioni di malattia al basale, terapie concomitanti, caratteristiche dei pazienti. Le limitazioni alla qualità metodologica delle revisioni riguardavano più comunemente l’assenza di un protocollo e le fonti di finanziamento degli studi primari». Nonostante queste limitazioni e in virtù dell’analisi dell’esito principale della mortalità, «questa rassegna di revisioni sistematiche supporta la sicurezza e l’efficacia dell’uso clinico della CP rispetto alla terapia standard quando somministrata ad alto titolo e all’inizio del decorso della COVID-19». Sono comunque necessarie ulteriori analisi attraverso una nuova revisione, che però deve essere basata «sui dati dei singoli pazienti piuttosto che su dati aggregati (che sono spesso insufficienti per un’analisi approfondita) o da studi clinici di terza generazione adeguatamente alimentati (cioè che valutino l’uso precoce della CP ad alto titolo somministrata in popolazioni di pazienti con risposta antivirale inadeguata e a maggior rischio di sviluppare una COVID-19 grave». In questo modo, secondo i ricercatori, si può stabilire esattamente in quali casi la terapia con plasma convalescente può fornire il maggior beneficio clinico contro il Covid.

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