A che punto siamo nella ricerca di una cura contro il virus SARS-CoV2, meglio noto come nuovo Coronavirus, diventato oramai un’emergenza mondiale e per il quale come spiegato da più parti non ci sarà un vaccino almeno fino al 2021? Pur conoscendo poco di questo agente patogeno e della modalità di contagio (anche se negli ultimi mesi sono stati già pubblicati importanti studi che hanno aiutato a fronteggiare la pandemia e a riorganizzare i vari sistemi sanitari nazionali, spesso colti alla sprovvista da un nemico subdolo e sconosciuto) a latitate tuttavia sono gli approcci univoci per il controllo della diffusione dell’epidemia e per il trattamento dei malati: infatti secondo la dottoressa Graziella Morace (virologa ed esperta di vaccini, ora in pensione dopo aver lavorato come Prima Ricercatrice presso l’Istituto Superiore di Sanità) anche l’utilizzo del plasma iperimmune, nonostante da più parti sia stato definito un’innovazione ed alimenta tante aspettative (tanto che qualcuno ha alimentato tesi complottistiche a riguardo…), è una pratica vecchia che ha origine sin dalla fine dell’Ottocento quando già il plasma era usato per scopi terapeutici e secondo la ricercatrice non è da escludere che possa avere efficacia su quei pazienti soprattutto se non esistono possibilità immediate di trattamento dal momento che nel sangue delle persone guarite (o meglio nel loro plasma, che del sangue è la parte liquida) sono presenti proprio quegli anticorpi che combattono il Covid-19.
“PLASMA AUTOIMMUNE? CURA NON CONSOLIDATA PERCHE’…”
Fatta questa premessa tuttavia la Morace ricorda che però non è così semplice ricorrere al plasma iperimmune dal momento che dovrebbero esistere criteri di selezione dei donatori molto severi, tra cui la certezza che davvero sia stato infettato dal nuovo Coronavirus, che abbia superato la patologia, sia poi risultato negativo al test e che si sia in presenza degli anticorpi contro la famigerata proteina Spike del Covid-19 con un livello superiore ai 160 EIA: in caso contrario, e senza i dovuti controlli, la pratica potrebbe diventare pericolosa e gli anticorpi potrebbero presentare altri virus pericolosi come quello delle epatiti B e C e dell’HIV, contagiando il paziente. Insomma, lungi dall’essere considerata una “cura consolidata”, quella del plasma rappresenta solo una terapia per i casi di emergenza, come già accaduto in Cina mentre in Italia come è noto una sperimentazione in tal senso ha avuto il Policlinico “San Matteo” di Pavia in prima fila. Secondo la Morace, anche se molti risultati sono promettenti, gli studi sono stati condotti su un numero di pazienti ancora troppo esiguo, mentre per la scienziata è molto più promettente come terapia l’uso degli anticorpi monoclonali (che qui però sono “purificati” e disponibili in grandi quantità) che agiscono direttamente contro la proteina Spike, pur basandosi sullo stesso principio del plasma iperimmune e quindi conferendo una immunità passiva contro il virus. Studi in tal senso sono in corso in diversi centri di ricerca e atenei nel mondo ma la domanda è quando potranno essere a disposizione questi anticorpi monoclonali.
TERAPIA CON ANTICORPI MONOCLONALI: “EFFETTO IMMEDIATO COME VACCINO MA…”
Secondo l’ex ricercatrice dell’ISS ci vorrà ancora un po’ di tempo dato che vanno selezionati quelli “neutralizzanti” più promettenti e che per essere prodotti a livello industriale ci vorranno almeno 8-9 mesi, ma hanno il vantaggio che a differenza della protezione vaccinale (che ha bisogno dalle due alle quattro settimane per avere svilupparsi) hanno un effetto protettivo pressoché immediato anche se l’altro lato della medaglia è che si tratta solo di un “trasferimento passivo di anticorpi” e dunque la memoria immunitaria ha una durata limitata a circa tre mesi. Insomma, aggiunge la Morace, non si tratta affatto di un sostituto dei vaccini dato che questi ultimi “insegnano” al sistema immunitario a produrre da solo gli anticorpi per un periodo più lungo. E per quanto concerne infine la ricerca di un vaccino? La dottoressa ricorda che al momento, secondo l’OMS; ci sono almeno 110 vaccini candidati, di cui 102 sono ancora però in fase preclinica e dunque vengono testati ancora sugli animali per verificarne l’eventuale tossicità e l’immunogenicità: dunque anche se molti di questi utilizzano i più moderni strumenti di ingegneria genetica ci vorrà ancora molto tempo e a oggi non sappiamo quali di questi saranno i più efficaci e riusciranno a superare tutte le varie fasi di autorizzazione prima di finire in commercio: “Anche se le fasi dovessero essere accelerate rispetto alla normale prassi, questi vaccini non potranno essere disponibili, nella visione più ottimistica, prima di un anno e mezzo-due” conclude la Morace che parla delle ricerche attualmente in corso nel mondo come di “tessere di un mosaico” che andranno a comporre quello che sarà il quadro finale dell’arma che in futuro dovrà difenderci da questa malattia.