Sembra ancora ieri quando il premier Giuseppe Conte governava il Paese con pieni poteri, nella stagione dei Dpcm. Conte era un parlamentare non eletto, sedicente “cattolico democratico” a capo di un governo trasformista M5s-Pd. Con il pretesto dell’emergenza-Covid, prese a intrattenere gli italiani confinati nelle loro case con lunghissimi live serali su reti tv e Facebook. E cinque anni fa la piattaforma social era forse la maggiore oligopolista della rete: più di quanto lo sia oggi X di Elon Musk. In ogni caso anche Mark Zuckerberg si è ora prontamente ri-schierato con Donald Trump. Ma lo stesso Conte dovette a Trump – forse più che a Sergio Mattarella – il suo re-incarico durante il ribaltone italiano dell’agosto 2019.
L’ormai proverbiale endorsement di Trump a “Giuseppi” non fu certo motivato da sintonia politica: non voleva certo riportare al potere il Pd di Romano Prodi a fianco di una forza populista di sinistra, né sancire il primato di alcuna “maggioranza Ursula” in Europa. Il presidente Usa – maestro della diplomazia “transazionale” – incassò invece una contropartita precisa e immediata. Nell’arco di giorni (prima che a Conte fosse dato il reincarico e una nuova fiducia parlamentare), il ministro della Giustizia dell’amministrazione repubblicana, William Barr, volò a Roma in missione segreta ed ebbe contatti con i vertici dei servizi italiani di intelligence. Non è mai stato chiarito in modo puntuale se abbia incontrato personalmente o meno il premier stesso, quali informazioni cercasse e quali abbia ricevuto. Di certo all’inizio di settembre Conte 2 giurava nelle mani di Mattarella, senza che la Procura di Roma pensasse nel frattempo di aprire alcun fascicolo sul “caso Barr”; senza che alcuna denuncia – meritevole o no di “atti dovuti” – fosse recapitata al procuratore capo su un classico intrigo diplomatico, con gli 007 protagonisti.
In quei mesi, peraltro, la Procura capitolina era al centro del terremoto interno alla magistratura italiana noto come “caso Palamara”, dal nome del magistrato – ex presidente dell’Anm ed ex membro del Csm – che finì espulso dall’ordine giudiziario. E che in seguito alzò il velo sui controversi meccanismi di designazione e di azione radicatisi nelle fila dei magistrati italiani. Fu in seguito al “caso Palamara”, comunque, che Francesco Lo Voi ottenne infine la nomina a procuratore capo di Roma, inizialmente negatagli da un concorso poi riconosciuto come irregolare (manipolato come altri dalle lottizzazioni e dalle rivalità interne alle correnti dei magistrati). E fu allora che anche Mattarella – nelle vesti di presidente del Csm – si risolse e rivolgere appelli fermi ai magistrati perché “auto-riformassero” le prassi gravemente anomale emerse con il “caso Palamara”, compresa la politicizzazione di alcune iniziative giudiziarie. Ed è stato anche in scia a quelle vicende che la maggioranza di centrodestra in carica dal 2022 ha messo in agenda fin dalla campagna elettorale una riforma dell’ordine giudiziario, a partire dalla separazione delle carriere fra inquirenti e giudicanti.
Un celebre ex Pm – Antonio Di Pietro – è intanto tornato sotto i riflettori accesi dai “caso Lo Voi”. Non tutti, peraltro, ricordano che – ormai più di trent’anni fa, nel luglio 1994 – Di Pietro fece irruzione sugli schermi tv e minacciò in diretta dimissioni dell’intero pool di Mani Pulite; un passo per alcuni versi “ricattatorio” verso il potere legislativo e quello esecutivo. Attorno a lui apparvero in video Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Francesco Greco, a protestare platealmente contro il cosiddetto “decreto Biondi”, firmato dal ministro della Giustizia del primo governo di Silvio Berlusconi, fresco vincitore al voto. Ai magistrati milanesi quella normativa approvata da un governo pur democraticamente in carica non piaceva affatto, perché limitava i loro poteri, pressoché assoluti, di “associare al carcere persone raggiunte da schiaccianti prove”. Fu così che quattro magistrati pretesero da un singolare tribuna televisiva che il Parlamento sovrano bocciasse un provvedimento di legge proposto dal governo perché – a loro personale avviso – “in contrasto con i sentimenti di giustizia e di equità”.
Il “decreto Biondi” fu bocciato, ma appena cinque mesi dopo Di Pietro annunciò le sue scioccanti dimissioni dalla magistratura, durante il “padre di tutte i processi” di Mani Pulite: quello per le tangenti Enimont. Avvenne pochi giorni dopo l’avviso di garanzia recapitato a mezzo stampa dalla Procura di Milano al premier Berlusconi, impegnato nel G7 di Napoli. Il primo esecutivo del Cavaliere ne rimase colpito: cadde pochi mesi dopo in seguito a un “ribaltone” orchestrato dal Quirinale del democristiano Oscar Luigi Scalfaro. Al voto anticipato del 1996 Di Pietro riemerse come ministro delle Infrastrutture del primo governo Prodi. Fu l’inizio di una carriera politica culminata nella fondazione del partito Italia dei Valori.
Idv partecipò alla coalizione di centrosinistra che vinse di un soffio le elezioni 2006. Di Pietro riebbe la poltrona delle Infrastrutture nel Prodi 2 e poté collocare due suoi parlamentari come sottosegretari. Fra questi, alla Giustizia, l’allora senatore Luigi Li Gotti, che nei giorni scorsi ha presentato alla Procura di Roma l’esposto sul caso Almasri. L’esposto è stato considerato da Lo Voi fondato ai fini dell’iscrizione della premier Giorgia Meloni, del sottosegretario Alfredo Mantovano e dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi al registro degli indagati per favoreggiamento e peculato.
Il più famoso “pronunciamento” in diretta tv nella storia della Repubblica rimane però il “non ci sto” del presidente Scalfaro: sempre nel triangolo politica-magistratura-intelligence. Era la sera del 3 novembre 1993 e Scalfaro impose a tutte le reti tv (Rai e Mediaset) un suo messaggio urgente, dopo il leak delle deposizioni dell’ex direttore del Sisde, Riccardo Malpica. Quest’ultimo aveva raggiunto il vertice del servizio di sicurezza civile su proposta dello stesso Scalfaro, ministro dell’Interno nell’ultimo governo Andreotti. Il prefetto Malpica era stato arrestato dalla Procura di Roma, che in un’inchiesta per bancarotta aveva scoperto una somma liquida notevole (14 miliardi di lire di allora) riconducibile al Sisde e giustificata da uno degli indagati come “fondo riservato” a disposizione del Viminale per la soluzione di emergenze. Ma l’ex direttore del Sisde – secondo quanto era filtrato dagli interrogatori – si era spinto più in là: aveva ventilato un trasferimento da quel fondo al ministro stesso.
La reazione di Scalfaro – dallo studio del Quirinale – fu particolarmente dura: neppure troppo velatamente anche contro i magistrati inquirenti, che non potevano ritenersi estranei alla fuga di notizie. Il presidente la definì “il più vergognoso e ignobile degli scandali” e “un tentativo di lenta distruzione dello Stato”. “Mio dovere primario – affermò – è non darla vinta a chi lavora allo sfascio… il grande problema che dobbiamo tutti insieme – Capo dello stato, potere legislativo, esecutivo e giudiziario – affrontare e risolvere è quello di fare giustizia nei confronti di chi ha commesso fatti gravi contro la legge, e al tempo stesso di non recare danno alla vita dello Stato e alla sua immagine nel mondo”.
Nel passaggio-chiave dell’intervento Scalfaro disse: “A questo gioco al massacro io non ci sto. Io sento il dovere di non starci, e di dare l’allarme. Non ci sto, non per difendere la mia persona, che può uscire di scena in ogni momento, ma per tutelare la presidenza della Repubblica assieme a tutti gli organi dello Stato. Il tempo che manca per le elezioni non può consumarsi nel cuocere a fuoco lento, con le persone che le rappresentano, le istituzioni dello Stato”.
Il procuratore capo di Roma, Vittorio Mele, reagì immediatamente muovendo l’accusa di “attentato agli organi costituzionali dello Stato” contro gli autori delle accuse a Scalfaro. Nel frattempo il ministro dell’Interno Nicola Mancino (Dc nel governo Ciampi) istituì una commissione amministrativa d’inchiesta che, nella relazione finale, escluse illeciti nell’uso dei fondi del Sisde. Malpica fu condannato a tre anni e tre mesi di reclusione, ma venne successivamente assolto.
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