Il messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla querelle fra governo e magistrati sul caso Albania è stato da subito commentato in termini scontati (ed è assai probabile che la narrazione continui oggi), con un plauso a un Quirinale invariabilmente dipinto come  “super partes”, come unico soggetto affidabile della Repubblica, impegnato la domenica sera a spegnere un incendio istituzionale fra il potere esecutivo e quello giudiziario. Ma già nella decisione di lanciare un messaggio “straordinario” al Paese – con il fine preteso di “normalizzare” un grave conflitto entro lo Stato – filtrano elementi (almeno oggettivi) di qualche discutibilità.



Risulta gonfiato come emergenza istituzionale qualcosa che va a nascondere l’emergenza reale: la gestione dei flussi migratori, cui il governo sta cercando di dare una risposta che sta riscuotendo l’interesse della Ue e di importanti governi europei, a cominciare da Francia e  Gran Bretagna.

Viene accreditata come rissa istituzionale a sfondo politico il momento ennesimo di un’anomalia sempre più grave nell’architettura dello Stato. Un’involuzione – quella anzitutto interna all’ordine giudiziario – che sarebbe stato anzitutto compito del Quirinale sanare, esercitando i suoi poteri esclusivi di guida del Csm.



I rapporti fra governo e giustizia sono sempre più difficili. La maggioranza parlamentare in carica da due anni (per la prima volta dopo un decennio di maggioranze paludose, di esecutivi tecnici e di larghe intese, di poteri speciali e di derive semipresidenzialiste) si è proposta in via programmatica e trasparente una riforma complessiva della forma di governo: ma il progetto di premierato è notoriamente sgradito al Presidente in carica (da quasi dieci anni) e alla forza politica da cui proviene (il Pd, primo partito d’opposizione, mai vero vincitore di un’elezione politica).

Il Quirinale che si autopropone come “paciere” di garanzia ultima nella Repubblica democratica, è nei fatti parte in causa non neutrale dell’ennesimo conflitto fra maggioranza di governo e magistratura. E non è facile stabilire se il messaggio di ieri sera risulti alla fine un secchio d’acqua o una bottiglia di benzina. Esattamente come otto mesi fa non è risultato affatto distensivo e “super partes” – come forse è voluto sembrare – il diktat ad aprire le piazze ai cortei filopalestinesi. Il governo alla fine ha dovuto richiuderle: ri-assumendosi tutte le responsabilità politiche e di ordine pubblico.



Il Quirinale ha alcuni poteri costituzionalmente definiti. Uno di questi è quello di non controfirmare (motivatamente) un decreto del governo. Un secondo è l’invio di messaggi (altrettanto motivati) alle Camere (non al Paese, stile abusato dal premier Giuseppe Conte durante la pandemia). Queste sono le leve – certamente associate a importanti responsabilità – che il Quirinale sembra poter agevolmente utilizzare anche nel caso Albania (perché tale è e resta). Una “moral suasion” ai poteri dello Stato perché “non litighino” e “si mettano d’accordo” può apparire alla fine meno “morale” di quanto voglia essere o sembrare. Ha invece l’effetto oggettivo di frenare l’azione del governo – e alla fine anche di screditarlo – attraverso percorsi estranei alla sovranità democratica.

Il Quirinale teme che di fronte a un “decreto Albania” respinto il governo si dimetta? Teme – stavolta – di non riuscire a costruire un ennesimo “esecutivo del Presidente” e di dover indire elezioni anticipate? La democrazia – insegnano anzitutto gli Stati Uniti dal 1776 – è un gioco di controlli e contrappesi. È valso, poche settimane fa, perfino nella Francia semipresidenzialista, dove il Presidente (pur rieletto a suffragio popolare) è finito in minoranza.

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