Le grandi aziende chiudono o dichiarano esuberi, e tutti se ne interessano. Quelle piccole e medie, invece, chiudono a migliaia e nessuno se ne accorge. Eppure costituiscono il 97% delle aziende italiane. Su di loro API Milano, Monza, Lodi, Pavia e Bergamo vuole riportare l’attenzione, chiedendo soprattutto di puntare sulla formazione dei giovani per risolvere l’annoso problema della mancanza di personale, che attanaglia la maggior parte delle imprese. Per questo, spiega Stefano Valvason, direttore generale di API, è necessario sostenere le PMI, chiamate a far fronte alle sfide del digitale, della transizione ecologica, dell’IA, in un momento in cui la crisi dell’automotive, dell’economia tedesca e le guerre stanno creando un contesto poco favorevole agli investimenti.
Nell’ultimo anno hanno chiuso, nelle province di Milano, Monza Brianza e Lodi, circa 1.120 imprese manifatturiere. Come mai questa morìa di aziende?
Siamo di fronte a una crisi permanente, cui si sovrappone quella dell’automotive, che trascina tutto l’indotto della piccola e media impresa del settore metalmeccanico, elettronico, plastico, chimico-plastico, senza contare il costo dell’energia e la situazione geopolitica, con 56 conflitti che coinvolgono 92 nazioni. Tutto questo indubbiamente ha frenato la crescita e lo sviluppo delle imprese manifatturiere. Le aziende dell’indotto dell’automotive si vedono annullare ordini per cui hanno già fatto gli acquisti, hanno già sviluppato semilavorati e prodotti finiti, pronti in magazzino per essere consegnati, ma alla fine stoppati dalle grandi compagnie tedesche e non solo.
Paghiamo soprattutto la crisi della Germania?
La Germania è uno degli sbocchi principali delle aziende del territorio. La crisi, inoltre, arriva in un momento in cui bisognerebbe investire significativamente per far fronte alle sfide della transizione digitale, dell’intelligenza artificiale, della sostenibilità, della transizione green, sfruttando le opportunità del PNRR. Le aziende sono obbligate a investire ma anche, da un certo punto di vista, impossibilitate a farlo.
A tutto questo poi si aggiunge anche la difficoltà di trovare profili professionali adeguati alle esigenze delle imprese?
Non si trovano persone da assumere in azienda, soprattutto. È il problema numero uno di tutti gli imprenditori: non riescono ad assumere persone con un livello di competenze adeguate alle necessità.
È il nostro sistema di formazione che è carente? È impossibile riqualificare, per esempio, le persone che hanno perso il posto per la chiusura delle società in cui lavoravano?
Indubbiamente il sistema delle scuole professionali e tecniche non forma giovani diplomati con competenze adeguate per poter essere inseriti in azienda. Lo riconoscono gli stessi istituti. Noi di API stiamo svolgendo da tre anni un intenso lavoro per avvicinare il mondo delle PMI a quello della scuola, degli enti di formazione, ma anche alle università, perché questi due mondi si conoscano e si parlino.
Che cosa vuol dire?
Significa portare gli imprenditori dentro le scuole, ma direi ancora prima, a contatto con le famiglie.
Nel periodo dell’orientamento, quando si tengono gli open day delle scuole, in realtà i ragazzi e le famiglie dovrebbero poter parlare anche con le imprese per avere un’idea delle opportunità professionali che offre il mondo del lavoro?
Sicuramente sì. La testimonianza di chi ha creato un’impresa e soprattutto la passione e l’orgoglio con cui gli imprenditori raccontano la loro azienda sono fondamentali per i ragazzi, che spesso vengono invitati nelle imprese per vedere cosa vuol dire gestire una macchina a controllo numerico, per sfatare quel pregiudizio che vede ancora le piccole aziende manifatturiere come un ambiente sporco, quasi fosse un ambiente in cui le persone vengono sfruttate. Niente di più lontano dalla realtà. Per questo portiamo i nostri imprenditori a contatto con le scuole, sviluppiamo borse di studio, sosteniamo progetti di quella che si chiamava alternanza scuola-lavoro, progetti di inserimento per rendersi conto delle lavorazioni, delle tecnologie, ma anche più banalmente di cose più semplici, tipo il rispetto dell’orario di lavoro e dei ruoli. Per togliere il pregiudizio che il lavoro manuale sia da considerare di serie B.
Un tipo di lavoro che dà delle prospettive.
In prospettiva sarà più facile trovare un ingegnere piuttosto che un artigiano, mancheranno quei mestieri che gli italiani non vogliono più fare e che invece potrebbero dare un’indipendenza economica e un lavoro sicuro. C’è proprio tutta una narrazione da cambiare nei confronti dei ragazzi, indirizzandoli verso gli istituti tecnici. Non devono per forza fare tutti il liceo e andare all’università. In questo contesto le piccole e medie imprese devono imparare a raccontarsi di più.
Il presidente di API Alberto Fiammenghi segnala anche un problema di rottura del patto pubblico-privato: le aziende si sentono sempre meno sostenute dalle istituzioni?
Più che altro vengono trascurate, siccome sono tante e piccole non vengono prese in considerazione al pari di una grande impresa che va in crisi, che desta l’attenzione dei sindacati, dei mass media, del governo e quant’altro. Dal primo gennaio 2023 al 30 settembre 2024 in Italia il saldo tra imprese che sono nate e imprese che hanno chiuso è di meno 14.172, ma non ne parla nessuno.
Se fosse Presidente del Consiglio in questo momento, cosa farebbe per prima cosa per aiutare le PMI?
Favorirei la staffetta generazionale tra chi è vicino all’età pensionabile e i giovani che possono entrare in azienda, per aiutare le imprese ad affrontare le sfide epocali dell’intelligenza artificiale, della transizione digitale, della sostenibilità. Lì c’è bisogno di giovani.
Intanto le aziende attendono per febbraio 2025 la pubblicazione del “Libro Bianco per una nuova strategia di politica industriale per l’Italia”. Finalmente un approccio strategico ai loro problemi?
È molto atteso perché sono decenni che non si fa politica industriale in Italia. L’unico intervento in questo senso è stata l’iniziativa di Calenda, quando era ministro, con Industria 4.0. L’idea di avere una politica industriale, quindi un indirizzo chiaro e condiviso di dove l’Italia vuole andare sui temi del settore industriale è assolutamente importante. Il rischio che vogliamo scongiurare è che sia un gran discorso che non si traduca in azioni concrete.
(Paolo Rossetti)
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