All’intransigenza sul Pnrr si sono aggiunte anche le Raccomandazioni europee. Gentiloni ha chiesto di accelerare l’attuazione del Piano. Secondo Bruxelles presentiamo squilibri macroeconomici eccessivi: serve una politica di bilancio che limiti l’aumento della spesa primaria a non più dell’ 1,3% nel 2024. Oltre alle misure di politica economica adottate dal Governo, dovrebbe essere proprio il Pnrr a rilanciare la nostra produttività, per questo – insiste la Commissione – occorre completarlo il prima possibile. Eppure, il governo si dibatte in una marea di difficoltà sulle quali una trattativa appare molto difficile.
Secondo Gustavo Piga, ordinario di economia politica nell’Università di Roma Tor Vergata, “i conti continuano a nono tornare, né in Italia né in Europa. Per salvare il Pnrr serve una rivoluzione da 10 miliardi, subito”.
Perché, dice che i conti non tornano, professore?
Il nostro ventennale scivolamento, insieme all’Unione Europea, nella serie B del mondo è un combinato disposto di colpe europee e italiane. Siamo parte di un dilemma del prigioniero, fatto di sospetti reciproci, dal quale, a queste condizioni, non si esce.
Partiamo dalle raccomandazioni.
Prendiamone atto: non si limitano più ad escludere la possibilità per lo Stato membro italiano di poter usare, in un momento come questo di costante difficoltà e ritardo del nostro Pil rispetto a quello dell’area euro, la leva della politica fiscale per permetterci di assorbire la crisi nel breve periodo e acquisire maggiore competitività nel lungo periodo.
Che già non è poca cosa. E invece?
Continuiamo ad avere una Commissione che sapendo di sbagliare, si ostina a farlo, chiedendoci in primis di rispettare il Patto di stabilità – solo formalmente sospeso – in un momento di crisi, con ulteriori riduzioni di deficit. Ma non solo. Ora è andata oltre.
Vale a dire?
Adesso non ci dice soltanto di ridurre il deficit – cosa che in questa fase, ripeto, è un errore clamoroso –, ma ci dice anche come farlo. Ossia riducendo la spesa corrente: meno soldi per ospedali, scuole, università… E per fare cosa? Per ridurre la pressione fiscale. A me pare una palese violazione della Costituzione italiana.
Dove la ravvisa?
Mi sembra francamente la prima volta che una raccomandazione europea entra in questo modo nel merito delle scelte da adottare per ridurre il deficit. A Bruxelles qualcuno ha deciso che il modo in cui lo Stato italiano si riorganizza intorno ai suoi valori fondanti deve essere quello nel quale il settore privato è nettamente preponderante su quello pubblico. E se l’Italia la pensasse diversamente? E se il nostro Parlamento e il nostro Governo decidessero che è più rilevante, adesso, sfruttare la leva degli investimenti pubblici e quella del capitale umano nella Pa, piuttosto che ridurre le tasse alle imprese?
Quali sono le conseguenze di questa impostazione ancor più prescrittiva e capillare?
Ne vedo due. La prima è quella di generare in Italia un’animosità e un sospetto ancora maggiore rispetto all’Ue. La seconda, si conferma il disinteresse completo dell’agenda europea rispetto all’opportunità di favorire quanto di virtuoso si può trovare all’interno del nostro Paese in termini di progettualità politica.
Lei ha detto poco fa che ci sono anche responsabilità italiane. Quali sarebbero?
Nell’aprile 2022 venimmo criticati e attaccati quando scrivemmo che l’Italia correva il rischio di buttare a mare tutto il Pnrr per la sua cronica incapacità di spesa.
Ebbene?
È stata una facile profezia. Non solo ora è argomento che domina dovunque si parli e si scriva di Pnrr, ma lo ha riconosciuto anche il pur bravo ministro Fitto.
Incapacità di spesa che però si somma anche agli errori commessi nel prendere tutte le risorse disponibili e nella predisposizione del Piano.
Assolutamente sì. Di questi errori però, che vanno imputati ai Governi precedenti, ho già detto e scritto e non starei a ripetermi. Non si costruisce un grattacielo in un giorno, e non lo si può fare senza muratori e materie prime.
Fuori di metafora?
Dentro la nostra pubblica amministrazione mancava e manca la capacità, sia in termini quantitativi che qualitativi, di reggere un piano simile. Attenzione: all’epoca era fattibile, e in parte rimane tale, ma non abbiamo fatto quello che dovevamo per farci trovare pronti ad un appuntamento decisivo. Se avessimo finanziato investimenti in capitale umano, cioè nella formazione dei dipendenti pubblici e nell’assunzione di persone nuove da immettere all’interno di quadri organici ancora oggi completamente sguarniti, sicuramente saremmo stati pronti. Investimenti veri, non i 700 milioni di Conte poi confermati dai Governi successivi, che equivalgono circa a 200 euro per dipendente. Ancor più clamoroso è che si continui a non parlarne.
Che cosa intende?
Siamo arrivati al punto da pensare che il modo per risolvere il problema e non buttare via le risorse sia quello di passarle a pie’ pari al settore privato.
È quello che ha proposto Fitto.
È ciò che prospettano i dati, nel momento in cui ci si accorge che l’unica parte che sta funzionando del Pnrr è quella basata o sui bonus o sui crediti di imposta. Ma l’Italia non ha bisogno solo di ricostruzione della nostra edilizia in termini ambientali e d’innovazione da parte delle imprese. Abbiamo un deficit di competitività rispetto agli altri Paesi europei che si spiega essenzialmente con la mancanza di infrastrutture, sociali e fisiche.
Cosa bisogna fare?
È un’emorragia che si può fermare solo con più investimenti pubblici. Perdere quest’opportunità vuol dire perdere la ragione stessa del Pnrr come strumento per lo sviluppo.
Questo per quanto riguarda le materie prime. E i “muratori”?
Non abbiamo le stazioni appaltanti con le competenze sufficienti. Questo è il punto.
Ma le competenze le abbiamo?
Certo, ma non le abbiamo strappate al settore privato, come potevamo fare, strapagandole con i soldi che meritavano di avere. Invece abbiamo fatto offerte a base di stipendi bassissimi e contratti a termine. Giustamente il ministro Salvini ricorda quanto è importante avere adesso un nuovo codice degli appalti, ma senza la rivoluzione qualitativa e quantitativa che andava fatta nella Pa, il nuovo codice degli appalti non serve a nulla.
Non le sembra che siamo senza potere contrattuale al tavolo europeo?
È per questo che ho parlato di dilemma del prigioniero. Il Pnrr era la grande occasione per dimostrare di sapere spendere. Avremmo potuto chiedere di smettere la folle politica di austerità che continua ad ispirare i deliri contenuti nelle raccomandazioni Ue, mettendo sul tavolo la nostra capacità di spesa di qualità. Avremmo potuto colmare un divario di fiducia storico che adesso ci troviamo, paradossalmente, ad alimentare ancor più di prima del Pnrr.
Secondo lei il Governo ha la possibilità di rinegoziare progetti, fondi, scadenze?
Il Governo deve fare subito una rivoluzione organizzativa delle stazioni appaltanti. Oggi ne abbiamo 32mila totalmente inefficaci. Ne servono 200 all’altezza, vicine al territorio, che rispondono direttamente a un ministero dedicato al controllo della spesa, dei dati e delle performances.
E la rivoluzione quanto costa?
10 miliardi. Alimentiamo annualmente sprechi per almeno 70 miliardi, sprechi che sono presenti sia nella spesa corrente sia in quella in conto capitale. Spendendo 10 miliardi si può creare una struttura amministrativa di eccellenza appropriandosi di 60 miliardi netti. Sa qual è il problema?
Ci dica.
Se Salvini va in via XX Settembre a chiedere 10 miliardi oggi per restituirne al Paese 60 in termini di riduzione degli sprechi, la Ragioneria gli dice no.
Fine dei giochi, dunque?
Ricordo al ministro Salvini che in via XX Settembre non c’è solo un Ragioniere ma anche un ministro del suo partito, della Lega. Si assuma la responsabilità di non rinunciare a quei 60 miliardi.
Andrebbe convinta anche l’Europa. O no?
Non direbbe di no ad un progetto credibile e virtuoso. Rimane il problema: in questo momento dall’Europa e dall’Italia arrivano segnali agli antipodi di quanto stiamo chiedendo in questa intervista.
(Federico Ferraù)
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