S’intensifica in questi giorni il dibattito sul miglior funzionamento possibile del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Non potrebbe essere altrimenti. Nei prossimi mesi, negli anni a seguire, sarà difficile parlare di qualcosa di diverso considerato l’impatto che il programma d’investimenti e riforme ha sul futuro del Paese e sulla sorte delle nuove generazioni in funzione delle quali è stato concepito dall’Unione europea.
Una grande opportunità, una sfida da far tremare le vene e i polsi, a cui non siamo propriamente preparati anche se Governo e parti sociali stanno facendo il proprio meglio per non sfigurare. Mai come in questo caso la buona o la cattiva riuscita del piano non potrà essere addebitata a una parte sola della politica perché ci hanno messo mano gli ultimi tre Governi – Conte, Draghi, Meloni – ciascuno con il suo carico di responsabilità nel bene come nel male.
Il Pnrr è un progetto Paese. Così dev’essere interpretato e così lo raccontano i ministri più esposti come il responsabile numero uno Raffaele Fitto e il collega Adolfo Urso applicato alle imprese e al Made in Italy. Gli operatori economici, benché preoccupati e anche un po’ vessati dall’imperiosa necessità delle transizioni ecologica e digitale, ce la stanno mettendo tutta per stare al passo dei tempi e mostrano performance fino a poco tempo fa insperate.
L’Italia è per la prima volta da molto tempo il Paese che va meglio in Europa. Stiamo surclassando la Germania alla quale siamo legati da un forte sentimento di odio e amore. La recessione tecnica in cui la prima manifattura del Continente (noi siamo la seconda) è caduta, da una parte, ci fa comprendere con orgoglio l’importanza del nostro sforzo collettivo e, dall’altra, ci allarma perché a lungo andare quella crisi si riverbererà sulle nostre aziende.
Tutto si tiene in economia. E anche se la globalizzazione non è più la stessa le interconnessioni sono così salde e numerose nel mondo degli affari che è difficile gioire o rattristarsi da soli. I soldi a nostra disposizione sono tantissimi, circa 300 miliardi da qui al 2029, mettendo nel conto quelli del Next Generation Eu, i finanziamenti ordinari di sviluppo e coesione, i fondi nazionali messi a integrazione delle diverse poste.
Per mettere tutto a fattor comune ci dovremo affidare a un complicato gioco d’incastri. Fitto e Urso, scelti per comodità giornalistica come i front men del Governo in questa partita, hanno ben chiaro che occorre raggiungere un’alta velocità di crociera, ma senza prodursi in accelerazioni insostenibili e, soprattutto, evitando di andare a sbattere sul muro della fretta. Per consegnare a Bruxelles la revisione delle nostre carte c’è tempo fino a tutto agosto.
Naturalmente abbiamo tutti la chiara consapevolezza di non essere culturalmente attrezzati e pronti a fare i conti con le conseguenze delle nostre scelte (da qui l’idiosincrasia per il famoso impatto delle misure che si provano sul campo) e a maggior ragione di non saper regolarci con i vincoli di tempo essendo l’orizzonte della Pubblica amministrazione l’infinito. La madre di tutti i nodi sta qui. Riuscire a sbrogliare la matassa è il vero problema.
Accanto alle buone notizie del Pil che cresce più del previsto e della domanda interna che si risveglia ne abbiamo altre meno favorevoli come l’inflazione che si mantiene alta, gli interessi in salita con conseguente stretta creditizia, il debito pubblico endemicamente alto che limita le manovre fiscali. Anche se la politica del rigore a tutti i costi, che tanti danni ha provocato nel recente passato, è andata in soffitta intervenire non è affatto facile.
Come ospedali di campo per le imprese in crisi o in predicato di andarci si pensa a fondi sovrani nazionali ed europei anche per contrastare gli aiuti concessi all’industria in America. Se i nostri principali alleati sono anche i nostri più agguerriti competitori la faccenda si fa seria. Poi c’è l’esigenza di renderci autonomi nella produzione dell’energia e sul reperimento delle materie prime cosiddette rare… Ce n’è abbastanza per rimboccarsi le maniche (copyright Sergio Mattarella).
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