Uno strano silenzio pare accompagnare l’integrale messa a regime della normativa adottata nel nostro Paese a protezione del whistleblower. Ricordiamo che l’espressione inglese indica la persona che compie un atto di whistleblowing, cioè segnala condotte illecite (o anche solo rischi di tali condotte) di cui sia venuta a conoscenza nell’ambito del proprio rapporto di lavoro. A partire da oggi, 17 dicembre, si applica infatti anche l’ultima parte delle disposizioni messe a punto in materia dal decreto legislativo n. 24 del 2023, che ha fra l’altro (dunque non solo) lo scopo di attuare una direttiva (n. 1937) dell’Ue del 2019, riguardante la protezione delle persone che appunto segnalano violazioni del diritto dell’Unione, e sostituisce la precedente legge n. 179 del 2017 di cui subito diremo.
Dalla data indicata ogni ente privato che abbia avuto alle proprie dipendenze nell’anno precedente un numero medio di dipendenti (indifferentemente se a tempo determinato o indeterminato) compreso fra le 50 e le 249 persone deve (ha quindi l’obbligo di) dotarsi di un sistema interno capace di assicurare al segnalante la riservatezza delle informazioni che egli intenda porre all’attenzione della propria dirigenza, informazioni riguardanti violazioni di normativa europea (puntualmente individuata dal decreto legislativo), ma anche di norme italiane civili, penali, amministrative, contabili, oppure rilevanti ai sensi del decreto legislativo n. 231 del 2001 (sulla responsabilità amministrativa da reato di società ed enti) o comunque incidenti sul corretto funzionamento dei modelli di organizzazione, gestione e controllo adottati sulla base di quest’ultimo.
Quanta differenza fra il tempo odierno e le settimane che hanno preceduto l’entrata in vigore della ricordata legge n. 179/2017 (“Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”), che fra l’altro per la prima volta imponeva appunto al settore privato l’obbligo di protezione del whistleblower! Allora vi fu fermento di idee e dibattito acceso per un istituto poco conosciuto nel nostro ordinamento giuridico. Eppure il legislatore aveva in quel caso compiuto solo una timidissima incursione nel comparto privato, rivolgendosi esclusivamente agli enti che si fossero dotati di un modello di organizzazione, gestione e controllo (un modello cosiddetto, in breve, di compliance/conformità) adottato proprio sulla base del decreto legislativo n. 231 del 2001 che per primo aveva dato applicazione al principio secondo cui anche un ente, una società o un’associazione possono avere una responsabilità discendente da un reato compiuto da persone fisiche. Per dirla in latino, dal principio secondo cui un’associazione non poteva come tale vedersi attribuire delle conseguenze da condotte penalmente rilevanti (societas delinquere non potest), conseguenze da riversare piuttosto esclusivamente sugli autori persone fisiche, si è passati a quello secondo cui l’associazione che non si organizza e non vigila adeguatamente può subire punizioni anche pesanti sul piano amministrativo (societas puniri potest), a cominciare da sanzioni patrimoniali.
Oggi, invece, ascoltiamo un silenzio che se non è assordante produce stupore. Forse si spera, con questo diffuso atteggiamento, che ci si dimentichi della svolta assai importante che la normativa nazionale di recepimento della direttiva dell’Unione Europea sopra ricordata ha determinato, cosicché nel silenzio passi in modo indolore la prassi di non adempiere e, dunque, si determini nel tempo la desuetudine della disciplina giuridica e, infine, l’irrilevanza dell’istituto.
Si sente anche dire da più parti che il mondo dell’impresa sta attuando le norme in questa materia nella prospettiva del mero adempimento cartolare, messo sulla carta ma non sostenuto da comportamenti conseguenti della dirigenza (e subito dimenticato). Si tratterebbe di prassi perniciosa, che ha accompagnato, almeno nella prima fase di attuazione, l’applicazione di molta normativa stabilita in funzione di prevenzione dell’illegalità. Eppure ben diverso dovrebbe essere l’atteggiamento verso l’istituto del whistleblowing, soprattutto in un momento storico dove una massa cospicua di denari pubblici europei si sta riversando sul Paese come frutto del finanziamento congiunto derivante dall’iniziativa Ue denominata Next Generation Eu e da fondi europei per la politica di coesione.
Il primo strumento mette a disposizione del nostro sistema-Paese, nell’arco temporale 2021-2026, una cifra (stante la modifica del PNRR chiesta e ottenuta dall’Italia a seguito di decisione del Consiglio Ur Ecofin del 7 dicembre scorso) pari a 194,4 miliardi di euro; i secondi assegnano allo stesso sistema-Italia, nell’arco temporale 2021-2029, 43,1 miliardi di euro. Gli appetiti di chi pensa di volgere al proprio vantaggio privato ingenti investimenti pubblici si sono già manifestati (si vedano ad esempio: le dichiarazioni di Maria Di Mauro, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord; e Direzione Investigativa Antimafia, Relazione al ministro dell’Interno e al Parlamento, luglio-dicembre 2023, specificamente p. 8).
Dunque ben diverso dovrebbe essere il comportamento della dirigenza degli enti italiani, tanto quelli appartenenti alla Pubblica amministrazione quanto quelli del comparto privato. In una prospettiva di prevenzione dell’illegalità e di preservazione dell’integrità dell’ente colui che comunica informazioni su condotte illegali (o anche solo sul rischio che esse si radichino) dall’interno del luogo di lavoro dovrebbe, infatti, essere apprezzato come il naturale alleato del proprio datore di lavoro. Il whistleblower dovrebbe dunque essere premiato – sul piano reputazionale, non con un premio in denaro – perché egli svolge il compito inestimabile di collaborare a mantenere l’ambiente di lavoro integro, contribuendo a che l’ente stesso adotti iniziative di compliance prima che altri, dall’esterno, intervengano (con misure varie, di carattere vuoi amministrativo vuoi giudiziario, ecc.) a “fare pulizia”.
Ecco perché vale la pena tenere alta l’attenzione sull’istituto, contribuendo alla diffusione della conoscenza sulle modalità del suo funzionamento e lavorando per la formazione culturale di tutte le componenti della società. Occorre imparare ad accettare che la cultura del silenzio (“sopire e troncare, … troncare e sopire”; per citare Manzoni) è cultura dell’omertà, mentre “spifferare” (come spregiativamente si definisce talora l’azione del whistleblower), ma facendolo nell’interesse dell’integrità dell’ente pubblico e privato, è questione virtuosa di assunzione di una propria responsabilità individuale: ardua, faticosa, ma necessaria.
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