Scrivere poesie non è mai facile. Innanzitutto perché il poeta in qualche modo espone se stesso al mondo. Ancor più difficile poi scriverle di questi tempi, dove la paludosa realtà della pandemia sembra schiacciare ogni impeto e slancio che voglia oltrepassare le nostre quattro mura domestiche.

La cosa rasenta l’eccezionalità se a scriverle non è uno scrittore, un letterato o un poeta ma una giovane donna avvocato trentenne milanese (in realtà bresciana, ma Milano, si sa, accoglie, pretende e non lascia più andare).



Fin da questi primi elementi la raccolta di poesie di Sara Tarantini (E Mi guardi, Marcianum Press, 2020) accende la curiosità: perché una giovane avvocato di successo dovrebbe mai scrivere poesie? Cosa avrà mai da comunicare? Qualcuno potrebbe pensare a un vezzo stilistico espressivo un po’ estroverso. Ma nei suoi versi non c’è alcun cedimento “barocco”, non ve ne sarebbe il tempo d’altronde per quella che è innanzitutto la comunicazione e la trasposizione in versi di una vita nella sua semplicità e al tempo stesso profondità abissale (e/o celestiale). E per avere un anticipo di ciò che aspetta il lettore basta soffermarsi sulle due recensioni finora pubblicate a commento della raccolta di poesie su Amazon.



Scrive per esempio M.G.: “Poesie lette tutte d’un fiato, ritmo incalzante e immagini plastiche rendono lo stile della scrittrice davvero molto interessante. Dopo averlo letto ci si sente meno soli, sapendo che c’è qualcun altro che vive quello che vivi anche tu e ti viene voglia di conoscere l’autrice”. E già il nostro lettore si troverà a pensare: non male sentirsi meno soli in questo tempo di isolamento forzato… Ancor di più se è dovuto alla scoperta che c’è qualcuno che vive quello che vivi anche tu e che magari non hai il coraggio (o la sincerità) di confessarlo nemmeno a te stesso.



Un po’ proprio come sottolinea Caterina, che nel suo commento scrive: “Raccontare implica conoscersi e questo non è facile. Raccontarsi, poi, è ancora più difficile, soprattutto se, come fa Sara Tarantini, questo implica mettere a nudo le proprie ferite e fragilità. Per questo a volte i versi sono così precisi da far quasi male, come delle stilettate. Ma ne vale la pena perché è l’inizio di una scoperta di sé e delle cose, di uno sguardo che sempre cerchiamo e sempre ci attende”.

Leggere le poesie di Sara Tarantini in effetti ci fa imbattere non solo con noi stessi, ma con la realtà quotidiana che tutti conosciamo bene, ciascuno a modo suo. Per l’autrice è la realtà di una giovane donna che vive la sua vita tra esami universitari, udienze in tribunale, tazzine di caffè, sigarette, serate con gli amici e amori piccoli e Grandi. Una realtà dove “tutto è confuso / anche i nostri contorni / sfumati”; dove “tutto sa di metà pomeriggio / quando il pranzo è passato / e la sera lontana / e le speranze del mattino / insabbiate da qualche parte nel cuore”.

Nel racconto di questa normalità – una normalità che è un po’ come Milano che “è sempre un po’ grigia / ma ogni tanto si colora” – è un continuo susseguirsi di “desideri irrisolti”, vero e proprio fil rouge. Un desiderio, mille desideri che fanno nascere infinite domande che bruciano, disseminate quasi ad illuminare il cammino del lettore lungo tutta la raccolta di poesie: “Possibile?” (che ci sia un vero amore che mi guarda come la prima volta, come “se fossi l’unica cosa che esiste”). Oppure: tutto brucia. “Ma tutto cosa?” E ancora: “Cosa ti manca?” “È una mancanza o una pienezza?”. Domande che bruciano, quando la realtà sembra sempre suscitare un desiderio troppo grande per essere soddisfatto. Che cosa basta, infatti, all’animo umano? Che cosa può davvero soddisfarlo? Sembrano riecheggiare qui – si parva licet componere magnisi versi di Clemente Rebora, laddove scrive: “Qualunque cosa tu dica o faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo! / E così tutto rimanda / a una segreta domanda”. Oppure, per usare il titolo di una poesia di Emily Dickinson, “This World is not Conclusion”: questo mondo non è tutto qua, “c’è un seguito di là, invisibile come la musica, ma forte come il suono”.

Una domanda dunque che esplode nei versi schietti e al tempo stesso profondi, dove la sincerità di chi scrive è in prima linea e, così facendo, chiama in causa anche quella di chi legge. All’immagine della “giovane donna per bene” – o all’uguale ancorché opposto stereotipo della “ragazza ribelle a tutti i costi” – l’autrice invoca uno sguardo “sincero” (non a caso una delle parole più ricorrenti tra i testi delle poesie): “quanto vorrei la sincerità delle domeniche mattina / quando si piangeva per una notte di cui non si ricordava nulla. / Sì, solo quella sincerità”.

Una sincerità che spinge l’autrice in un dialogo con la propria umanità senza reti di sicurezza, senza inutili ipocrisie (quanto diffuse anche tra “amici”!) o edulcorazioni politically correct.

Guidando così il lettore in un’immersione nella sua e nostra umanità, in una vertiginosa ricerca senza sosta, talvolta persino spericolata, del compimento di quel desiderio di pienezza e di felicità che ciascun essere umano appena appena sincero con se stesso conosce molto bene.