Dopo il rilancio avvenuto con il rivoluzionario videogioco Pokemon Go, la febbre dei mostri da catturare passa dalle consolle al grande schermo arrivando a realizzare il primo film in live action – ossia con attori – dedicato ai mostri tascabili da catturare e allenare. Il regista Rob Letterman, esperto di film animati o a tecnica mista ha però scelto di prendere come soggetto una sorta di progetto parallelo dell’universo Pokemon, ovvero il videogioco Detective Pikachu.
Così l’omonimo film racconta di un ragazzo che, in seguito alla scomparsa del padre poliziotto, si trasferisce a Ryme City, la prima città in cui la convivenza tra umani e Pokemon è perfetta. Qui conosce Pikachu, partner del padre, il quale è intenzionato a scoprire la verità su ciò che è successo visto che, dopo l’incidente stradale in cui anche il padre del ragazzo era coinvolto, ha perso la memoria.
Assieme a Nicole Perlman, il regista realizza una sorta di parodia del noir e dell’hard-boiled, prendendo in prestito le figure chiave del detective privato, della femme fatale, della città ombrosa che nasconde misteri e li rivolta in chiave infantile cercando quindi di accontentare i più piccoli e i loro accompagnatori, gli appassionati dei Pokemon e chi ne è a digiuno.
Ci riesce soprattutto lavorando sulla figura del personaggio che dà il titolo al film, doppiato in originale da Ryan Reynolds (Deadpool, da cui prende certi tratti ironici), il che permette a Pikachu di poter parlare – compreso solo dal ragazzo per una ragione che ha a che fare con lo sviluppo dell’intrigo – e costruire una caratterizzazione a metà tra la tenerezza innata del pupazzo e la spigolosità del classico investigatore da film giallo, contrasto che funge da motore umoristico del film. Dall’altro lato, invece, c’è lo spettacolo tonitruante caro agli amanti della serie e dei film animati così com’è interessante per i cultori il modo in cui sceneggiatori e produttori nippo-americani hanno innestato la mitologia tradizionale dei Pokemon in un’iconografia completamente estranea, mescolando suspense e colpi di scena, combattimenti rumorosi e parossistiche sequenze di distruzione (il giardino dei Torterra) con gag slapstick, come quella molto divertente del Pokemon mimo.
Tutto lo script è evidentemente ad altezza di ragazzo, come la presenza di alcuni deus-ex machina per semplificare l’intreccio o renderlo più chiaro dimostrano, ma Letterman e soci si divertono a raccontare la storia attraverso un uso non banale delle immagini e della verità dietro di esse, in filigrana appare anche il ruolo del giornalismo e del video assieme alle possibilità tecnologiche di manipolarli: non a caso, il gran finale è un tripudio di trasformazioni, mutaforma (Ditto), trasmigrazioni di anime, corpi e sembianti che arriveranno a quella conclusiva che dà un tocco di commozione al film.
Senza arrivare a picchi teorici e riflessivi di molto cinema ibrido recente, come tutto quello contemporaneo in cui il rapporto tra umano e inumano, tra digitale e analogico e praticamente simbiotico (a partire dal seminale Chi ha incastrato Roger Rabbit?), Pokémon: Detective Pikachu è un film divertente e abbastanza appassionante, capace di giocare con una certa sapienza le proprie carte, senza correre troppi rischi e al contempo senza cercare strade troppo risapute.