Le recenti polemiche che hanno accompagnato le dichiarazioni del ministro Giuseppe Valditara all’inaugurazione della Fondazione Cecchettin, questa nostra figlia minore, uccisa da un ragazzo assolutamente non riducibile ad un qualche stereotipo sociale facile da etichettare, ma anzi, dotato di un profilo tra i più rassicuranti possibili, impongono la necessità, e il coraggio, di operare un mutamento sostanziale della nostra analisi ordinaria.
Giulia e le mille Giulie, ma anche i Manuel Mastrapasqua e i Santo Romano, questo popolo di innocenti, travolti dal delirio di altrettanti idioti criminali, dove il narcisismo scantona nel delirio di onnipotenza che non rispetta più la vita ma la sopprime, vede certamente nelle donne le principali vittime. Ma nel ruolo di vittima vede anche gli uomini che, come Giovanbattista Cutolo o Willy Monteiro Duarte, con uno slancio degno della più profonda ammirazione e che è costato loro la vita, cercano di riportare alla lucidità i deliranti epigoni della microcriminalità locale, le falangi degli apprendisti camorristi, le nuove leve dell’Italia illegale e omicida. Ed infine vede tra le vittime gli immigrati stessi che, come Singh Nardev, dormono in abituri disumani, dove gli assistenti sociali non arrivano, ma vi fanno sosta gli adolescenti criminali con la pistola acquistata via web.
Porre l’uno affianco all’altro questi diversi percorsi dell’orrore vuol dire guardare il mostro nella sua totalità, nella sua capacità di uccidere la vita.
Ciò che mette insieme fatti di cronaca così abietti è sempre e comunque il buio. Quello delle sottoculture criminali, innanzitutto, che continuano a vivere nelle troppe “terre di nessuno”. Ma anche quello delle coscienze private, che si nascondono tra le pieghe di una “vita perbene”, lontane da qualsiasi stigma in grado di rivelarle, come riteneva ingenuamente Cesare Lombroso nella seconda metà dell’Ottocento.
Nella nostra società sopravvivono pericolosamente sottoculture criminali e incapacità genitoriali, scuole ridotte a puri serbatoi occupazionali assieme a terre di nessuno, capanne e baracche inosservate e incontrollate, sottopassi incustoditi, ma anche ZTL e linde villette a schiera, edificate in comuni immacolati, dove al posto del patriarca è piuttosto l’assenza del padre a manifestarsi.
Per fortuna – o se me lo si consente, per grazia – non si tratta che di isole, angoli di sconcertante putridità, ma che, pur essendo localizzabili in determinati hinterland metropolitani e in aree di particolare degrado, presentano il difetto di essere anche trasversali a queste e potersi collocare ovunque, anche nella migliore famiglia “perbene”.
Certamente il destinare maggiori risorse alla sicurezza costituisce un passaggio chiave. Illuminare sottopassi e sostituire alle baraccopoli ed alle tende degli alloggi decenti e sicuri è indispensabile. E tuttavia non basta né può bastare. Non è più possibile ritenere che la società si educhi da sé. La “comunità educante” è morta con la fine della comunità stessa. Al suo posto ci sono collettività anonime che non possono che recintarsi, ciascuno nel “filtro verde” del proprio villino. La società è un frutto tardivo che non si manifesta nel vuoto, bensì dentro collettività caratterizzate da una solidarietà morale comune, chiarita da norme ed orientata da valori, “condivisi e convissuti” come diceva il compianto Franco Ferrarotti.
Tuttavia la stessa proclamazione dei valori resta alla superficie e, alla fine, non può non suonare retorica se quest’ultimi non vengono inseriti nel circuito delle istituzioni.
Ci vuole pertanto un incremento della “società autorevole”. Quindi più scuola con più contenuti, più famiglia con più relazioni, più associazionismo culturale con più impegno civile, più attività condivise in un gioco di squadra che, come lo sport ci insegna, si apprende già nelle scuole elementari.
Ciò vuol dire scuole disponibili ad essere aperte e funzionali anche nelle ore pomeridiane, con biblioteche, laboratori e personale educante a disposizione. Meno riunioni tra gli insegnanti e più tempo dedicato agli scolari ed agli studenti. Più personale e soprattutto più personale qualificato per fare fronte alle difficoltà di apprendimento, che non vanno nascoste con le promozioni di massa, ma affrontate e risolte, proprio perché si possono risolvere quando sono affrontate in tempo.
Ma ciò vuol dire anche un maggiore investimento della responsabilità genitoriale, con tutto ciò che ne può conseguire anche sul piano civile e penale. Tutta la legislazione che mitiga le pene ai minori, fino a dichiararne l’imputabilità, non può non essere bilanciata dall’aumento di responsabilità dei genitori. Non c’è autorevolezza alcuna là dove non c’è anche, nei modi e nelle forme possibili, un’assunzione di responsabilità.
Si tratta di interventi ingombranti, per i quali c’è bisogno del consenso di tutti. Si tratta di varare una costituzione morale condivisa che richiede la fine di polemiche tanto estenuanti quanto avvilenti. Dinanzi alla tragedia di una ragazza uccisa da un uomo “bianco e perbene”, dinanzi alle donne uccise da barman che si credono Superman, ma anche di neonati seppelliti da ragazze, anche queste “bianche e perbene”, non è possibile reagire se non con un rimettere in moto una società civile lasciata per troppo tempo abbandonata a sé stessa.
Diventa sempre più necessario, accanto al prezioso pareggio del bilancio, anche il pareggio di una società restituita alla serenità dei comportamenti legali, orientati al rispetto dell’altro. Dove le mille zone franche, dai sottopassi della metropolitana alle patologie lasciate prosperare nel riduzionismo semplificante degli operatori e nell’inerzia dei genitori, abbiano sempre meno possibilità di estendersi.
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